il Saggiatore: Solenoide di Mircea Cărtărescu
Le primulètte sono le prime letture dei libri che leggeremo, quelli che non ci vogliamo dimenticare. E per questo vogliamo seminarli prima che fioriscano tra gli scaffali delle librerie. Ecco la primulètta numero cinque, Solenoide di Mircea Cărtărescu (traduzione di Bruno Mazzoni, il Saggiatore).
A volte mi capita di perdere il controllo delle braccia dal gomito in giù. Non mi fa paura, anzi a volte direi che mi piace proprio. Capita all’improvviso, per fortuna soltanto quando sono da solo. Scrivo qualcosa, correggo tesine o bevo il mio caffè, o mi taglio le unghie con la tronchesina cinese, e a un tratto mi sento le mani leggerissime, come se fossero riempite con un gas volatile. Si sollevano da sole, mi tirano su le braccia dagli omeri, levitano allegre nell’aria densa, oscura e insieme luminescente, della stanza. Allora mi rallegro anch’io e le contemplo come se le vedessi per la prima volta: lunghe, affusolate, dalle ossa sottili, con pochi peli neri sulle falangi delle dita. Sotto i miei occhi incantati, cominciano a gesticolare da sole in una maniera elegante e bizzarra, a raccontare storie che forse i sordi capirebbero. Le dita si muovono con precisione infallibile, in una serie di segni incomprensibili, quelle della mano destra domandano, quelle della mano sinistra rispondono, l’anulare e il pollice si chiudono a cerchio, i mignoli sfogliano qualcosa, i polsi girano come su di un perno con un’energia veloce, da direttore d’orchestra. Dovrei impazzire di paura, poiché qualcun altro, dentro il mio cervello, ordina questi movimenti così esplicitamente specializzati, che chiedono con disperazione di essere decodificati, e ciò nonostante raramente mi sento più felice. Guardo le mie mani come un bambino portato al teatro di burattini, che non capisce cosa succede sul minuscolo palcoscenico, ma è affascinato dall’agitazione delle creature di legno con capelli di stoppa e vestiti di carta crespa. L’animazione autonoma delle mie mani (grazie a Dio, non quando sono a scuola o per strada) si acquieta dopo qualche minuto, i gesti rallentano, cominciano a somigliare ai mudra delle danzatrici indiane, poi tutto finisce e per altri due o tre minuti posso godere della magica sensazione di avere le mani più leggere dell’aria, come se il babbo, al posto dei palloncini, avesse gonfiato col tubo del fornello due guanti per uso domestico, di gomma sottile, che adesso mi servono da mani. E come non dispiacermi quando le mie vere mani, brutali, pesanti, organiche, graffiate, con le striature dei muscoli, il bianco ialino dei tendini e le vene piene di sangue, rientrano nei guanti di pelle con unghie alle estremità, e a un tratto, con mia sorpresa, scopro di poter muovere le dita a mio piacimento, come se potessi, soltanto concentrandomi, spezzare un rametto del ficus sul davanzale o portare a me la tazzina del caffè senza alcun contatto. Solo più tardi mi prende la paura, solo dopo che questo incantesimo (che continua a capitare una volta ogni due o tre mesi) diventa una specie di ricordo comincio a chiedermi se per caso, tra le tante altre anomalie della mia vita – poiché di questo si tratta –, non abbia nell’indipendenza feerica delle mie mani ancora una prova che… tutto accade in sogno, che l’intera mia vita e onirica, o una cosa più triste, più grave, più folle, eppure più vera di qualsiasi altra storia che potrebbe mai essere immaginata. Il balletto spassoso-raccapricciante delle mie mani, sempre soltanto qui, nella mia casa a forma di nave di via Maica Domnului, è la più piccola, la più insignificante (di fatto benigna, in fin dei conti) fra le ragioni per cui scrivo queste pagine, solo per me, nell’incredibile solitudine della mia vita.
Se avessi voluto scrivere letteratura l’avrei fatto dieci anni fa.
Se avessi voluto veramente, voglio dire, senza uno sforzo consapevole, così come vuoi che il piede faccia un passo e lui lo fa. Non devi dire: «Ti ordino di fare un passo», non devi neanche pensare per quale complicato processo il tuo desiderio diventa azione. Devi solo crederci, avere fede tanto quanto un grano di senape. Se sei scrittore, scrivi. I libri arrivano senza che tu sappia cosa devi fare a tale scopo, com’è che funziona il tuo dono, così come la madre è fatta per generare e genera, realmente, il bimbo che le è cresciuto nell’utero, senza che la sua mente partecipi al complicato origami della propria carne. Se fossi stato scrittore, avrei scritto libri di finzione, avrei avuto fino a ora dieci, quindici romanzi senza maggiore sforzo rispetto a quello che faccio per secernere insulina o per far transitare, ogni giorno, il cibo tra i due orifici del mio apparato digerente. Io però, tempo addietro, quando la mia vita poteva ancora scegliere fra tantissime direzioni, ordinai alla mia mente di produrre finzione e non accadde nulla, così come guardo invano il mio dito e gli grido: «Muoviti!».