Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Primulètte

Safarà: Fra le tue dita gelate di Francisco Tario

Safarà: Fra le tue dita gelate di Francisco Tario

Le primulètte sono le prime letture dei libri che leggeremo, quelli che non ci vogliamo dimenticare. E per questo vogliamo seminarli prima che fioriscano tra gli scaffali delle librerie. Ecco la primulètta numero nove, Fra le tue dita gelate di Francisco Tario (traduzione di Raul Schenardi, Safarà).


Verso la fine di settembre

Stava già calando il buio quando le vele scomparvero. I veli delle donne continuavano a ondeggiare e apparve la luna. E quel vento che insisteva a soffiare, portando qua e là i veli e i profumi delle donne, e ci annunciava che l’estate era giunta alla fine e che i brani che ascoltavamo sarebbero stati gli ultimi dell’anno, quel vento, dicevo, mi portò un’impressione penosa, come se, di fatto, l’estate fosse finita. “Che amore sciocco” mi dicevo. Oppure: “Che amore inutile”. Lei alzò un dito per indicare l’orchestra e quell’uomo austero e tanto interessato a faccende di vele per un istante sembrò ascoltare con attenzione quello che stavano suonando i musicisti. Poi guardò me e sorrise, seguendo il ritmo con la testa e tenendo in mano il suo panama. E io mi ostinavo a chiarire, mentre i musicisti suonavano, quale possibile relazione potesse esistere fra quell’uomo così disincantato, che teneva in quel modo il suo copricapo, e i miei assurdi sogni notturni o i veli delle donne. Questa idea mi esaltava, mi faceva sentire un essere niente affatto comune, e in quel momento avrei bramato profferire qualcosa di importante e decisivo, ma breve; qualcosa che, a fine stagione, facesse comprendere alla donna amata di quali infiniti piaceri è piena la vita e a quali smisurati dispiaceri è esposto il cuore dell’uomo.

Lui indossava dei pantaloni bianchi di flanella, una giacca blu mare con i bottoni dorati e calzava scarpe bianche anch’esse.

Non appena cessò la musica, le luci si accesero di colpo, dando l’impressione che il cielo, arancione e alto com’era, scendesse popolandosi di luci infinite. Grandi manciate di lune rotonde si sparpagliarono fra i tavoli e si rifletterono sul mare. C’era una tenue voluttuosità nell’aria, una sorta di profumo antico e misterioso, un’agitazione segreta. Ora le donne ridevano, scostando i veli dal viso, lanciando brevi grida di allegria e congedando l’estate. Ben presto sarebbe iniziato il ballo e accanto al mare si presagiva un buon nu- mero di vele rosate e di amori effimeri. E questa voluttuosità successiva, carica di teneri e innocenti peccati, di pensieri incantevoli e brevi, si impadronì a poco a poco del mio animo, esaltandomi e intristendomi nello stesso tempo, persuadendomi che era indispensabile pronunciare qualcosa di intimo e di ignoto, in consonanza con la notte. Era forse l’ultima opportunità che mi veniva offerta. Forse quel brusio e la fine dell’estate, accentuati dalle lune bianche che avevamo intorno, avrebbero saputo avvolgere le mie parole in un velo di malinconia, di amarezza contenuta, e le parole mi sgorgarono dal cuore senza far rumore e senza destare sospetti. Perchè io sapevo che era il momento propizio, quello prescelto, affinché un uomo esprimesse il suo amore e il suo dolore, tutta l’immensità della sua tristezza, anche se questa sventura avrebbe comportato oggi un senso di colpa segreto, un delitto con cui dovevo fare i conti, non importa che la stagione finisse, che l’uomo morisse d’amore e che il ballo fosse già iniziato.

Tornavano pigramente le vele. E volevo dire, a quanto ricordo, che la mia anima era come una vela che si smarriva in mare nel buio o che io ero la solitudine stessa, sprovvista di vele. Che ero, insomma, qualcosa di altrettanto inaudito della notte stessa che ci piombava addosso, come la musica che suonava in quel momento o come qualcosa che neanch’io comprendevo. Che sarei stato capace, se la disperazione e le circostanze me lo avessero permesso, di amare in modo appassionato, esagerato, come non è consigliabile amare nessuno. Che la mia anima era cupa, limitata e profonda, e che era piena di parole occulte che mi affliggevano in ogni momento; e che queste parole, necessariamente, dovevano essere tra- smesse a qualcuno, non importa a chi, affinché la mia anima si sentisse più fiduciosa e mi permettesse di sopravvivere a una notte come quella. Volevo dire, per quello che ho capito, che non c’era niente di male ad agire così e che l’unico male – nel caso esistesse – era la mia personale disgrazia.