Tornare alla realtà senza perdere sé stessa: la letteratura dopo l’11 settembre
Tra le molte cose che simbolicamente sono crollate con le Torri Gemelle l’11 settembre 2001, c’è senza dubbio il post-moderno (Walter Siti, L’inganno del realismo, «La Stampa», 11 settembre 2011).
Si dice che ognuno ricordi cosa stesse facendo l’11 settembre; io invece non ne ho memoria, non avevo ancora cinque anni. In realtà non ho ricordi della mia vita anteriori al 18 giugno 2002: la data degli ottavi di finale della Coppa del Mondo, il giorno di Corea del Sud-Italia. Sappiamo tutti come andò a finire. Per me, l’eliminazione dal mondiale, così ingiusta e decisa dai capricci arbitrali, fu più traumatica – e, con il senno del poi, più memorabile ‒ della caduta di un paio di palazzi americani.
La memoria è egoista, soprattutto quella di un bambino. Ma mi sbagliavo di grosso se pensavo che quell’evento, così lontano dal ristretto nucleo dei miei interessi, non mi avrebbe mai riguardato: me ne accorgo oggi, da cittadino inserito in una società globalizzata e da studioso di letteratura.
È banale sottolineare l’importanza dell’11 settembre nel panorama politico mondiale, soprattutto dopo la recente presa di potere in Afghanistan da parte dei talebani, che erano stati il bersaglio dell’offensiva americana dopo gli attentati. Gli attacchi terroristici erano stati così clamorosi da spingere molti a parlare, addirittura, di una Storia che si era rimessa in movimento, dopo cinquant’anni di quiescenza. In quest’ottica, l’11 settembre avrebbe avuto un ruolo più determinante della deposizione di Romolo Augusto, del viaggio di Colombo e del Congresso di Vienna: se quegli eventi avevano segnato il passaggio da un’epoca all’altra, questo aveva addirittura resuscitato la Storia!
Ma l’impatto degli attentati di New York è stato così scioccante che, a fianco di storici, economisti e politologi, anche molti filosofi hanno provato a interpretarli e a spiegarne le ricadute sull’immaginario collettivo. Tra loro opposte, e dunque utili a delimitare il campo, sono state le letture di Baudrillard e di Žižek. Baudrillard sosteneva che l’immobilità della Storia si era interrotta e che il dominio dell’immaginario faceva i conti con la forza del reale; Žižek, invece, vedeva l’evento non in rottura, ma in continuità con la società che lo aveva prodotto: la catastrofe in stile hollywoodiano, a cui le persone erano abituate ad assistere di fronte a uno schermo, si materializzava in un martedì qualsiasi, facendo vacillare il confine tra realtà e finzione.
Ci stiamo avvicinando all’ordine di problemi che qui ci interessa, perché il rapporto tra immaginario e realtà, centrale sia in Baudrillard che in Žižek, non è altro che una configurazione sociologica del rapporto tra letteratura e mondo. L’11 settembre ha messo in discussione anche quello, dopo una fase di storia della cultura che durava da mezzo secolo.
Negli Stati Uniti a partire dagli anni Cinquanta, in Europa con alcuni anni di ritardo, si era imposto il postmodernismo. Scrittori, pittori, architetti, registi postmoderni non formavano un gruppo organizzato – come nel caso delle avanguardie di inizio Novecento, con i loro manifesti programmatici – ma sono stati retrospettivamente individuati dalla critica, sulla base di scelte formali e tematiche comuni. Senza appartenere ad alcuna scuola o ad alcun progetto condiviso, gli artisti intercettavano spontaneamente gli stimoli socioculturali a cui erano esposti e a cui davano, in modo indipendente, una forma espressiva similare.
Per quanto riguarda la letteratura, dobbiamo distinguere almeno due anime del postmodernismo: da una parte quella che affronta la realtà in senso agonistico, dall’altra quella disimpegnata, citatoria, che cerca di allontanarsi dal mondo. Nonostante la prima categoria conti grandissimi autori, soprattutto negli Stati Uniti – DeLillo, Pynchon; per l’Italia, il Pasolini di Petrolio –, i caratteri che associamo al postmodernismo sono prevalentemente quelli della seconda categoria, le cui parole d’ordine sono disimpegno, citazionismo, fuga dalla realtà, labirinto, commistione tra cultura alta e cultura bassa, metaletteratura.
L’ambiente culturale italiano era particolarmente propenso a questa seconda forma di postmodernismo, come dimostra la pubblicazione ravvicinata di due opere che hanno goduto di grandissima fortuna e influenza: Se una notte d’inverno un viaggiatore (1979) di Calvino e Il nome della rosa (1980) di Eco. Il romanzo di Calvino è formato dall’inizio di tanti (ipotetici) romanzi diversi, quelli in cui il protagonista si imbatte mentre è sulle tracce di un libro che si intitola proprio Se una notte d’inverno un viaggiatore. La storia, così brevemente riassunta, non è per niente chiara, ma mette in evidenza il gioco parodico e metaletterario del testo. Eco, invece, rilancia il romanzo storico e il giallo tradizionale – il modello più che evidente è quello di Arthur Conan Doyle –, ma la trama investigativa allude costantemente agli studi di semiotica a cui l’autore stava lavorando. Entrambi i romanzi sono ben lontani dalla quotidianità del lettore, costruiscono una propria realtà assoluta ‒ nel senso etimologico del termine ‒ non dialogano con il mondo ma con altra letteratura, evocata in forma più o meno diretta. Esemplificati su Se una notte… e Il nome della rosa, i romanzi postmodernisti si pongono in ovvio contrasto con una poetica cronologicamente vicina come il neorealismo, ma si allontanano anche dal modernismo, di cui viene a mancare la distinzione tra arte alta e bassa e la volontà di confrontarsi criticamente con il mondo, implicita nella creazione di personaggi dissonanti, ma capaci di gettare sulla realtà uno sguardo rivelatore.
Parlare di fuga dal mondo non è mai del tutto corretto, perché è impossibile rinunciare alla cornice che ci ospita e che forma i nostri pensieri, ma certo i testi di Calvino e di Eco ci raccontano ben poco della realtà del loro tempo. Essa, semmai, veniva trattata come un qualunque materiale da cui prelevare brandelli da citare nell’opera, al pari di film, fumetti, romanzi. Del resto la Storia sembrava essersi fermata: perché dunque insistere sull’extratesto, quando esso ha così poco da dirci? Si potrebbe obiettare – e la critica lo ha fatto – che gli anni in cui sono attivi Calvino ed Eco corrispondono a quelli del terrorismo nero e rosso, un fenomeno che riguardava ognuno, ma che non trova spazio nella loro produzione. Le cause di questo allontanamento della letteratura dal mondo saranno, allora, anche altre: reazione alla marginalizzazione dei saperi umanistici nella società postmoderna; conseguenza delle teorie di derivazione saussuriana, secondo cui la lingua costituisce un codice da cui non è possibile uscire; prosecuzione della dinamica modernista di coazione al nuovo come principio strutturante ogni produzione estetica.
In questo contesto, l’11 settembre ha costituito un momento di svolta, perché ha reso inevitabile che gli intellettuali riflettessero sulle cause storiche e sulle conseguenze simboliche dell’attentato. La letteratura ha così cominciato a confrontarsi nuovamente con l’attualità, tanto che, almeno in ambito italiano, si è parlato di “ritorno alla realtà”.
Il ritorno alla realtà sembra necessario per restituire alla letteratura una funzione sociale forte, ma allo stesso tempo rischia di omologarla ad altre forme di comunicazione, come quella giornalistica. Negli ultimi decenni è aumentato il numero degli instant book di carattere narrativo, pubblicati per intervenire nel dibattito pubblico e per manifestare posizioni etiche nette. La letteratura, però, ha un linguaggio diverso da quello della comunicazione quotidiana, può far valere più punti di vista e dare la parola alle posizioni più inaccettabili, può riscattare la propria bassezza morale tramite una struttura formale inattaccabile. Quanto la letteratura è disposta a semplificarsi, per poter ambire a un riconoscimento maggiore?
Per quanto mi riguarda, fare letteratura non significa abbellire il rendiconto del nostro tempo con qualche figura retorica, né dover manifestare idee forti sui temi del momento, ma proporre, attraverso le risorse specifiche del mezzo, una visione del mondo originale e irriducibile ad altri saperi. Se la letteratura limitasse il campo delle proprie possibilità espressive diventerebbe facilmente sostituibile da altre forme di espressione artistica, meno impegnative a livello di costruzione formale e di maggior impatto sensoriale. La letteratura del nostro tempo dovrebbe allora ereditare dal postmodernismo proprio la coscienza della sua unicità – ottenuta attraverso la riflessione su sé stessa – per non annullarsi nel flusso dell’infotainment e per continuare a distinguersi da altre modalità di storytelling (cinema, musica, podcast, serie tv…).
Per quanto riguarda l’aspetto più pragmatico, il ritorno alla realtà ha comportato l’introduzione o la ripresa di generi che il postmodernismo non aveva utilizzato. È interessante continuare ad osservare il caso italiano, dove il postmodernismo si era affermato nella sua forma maggiormente autoriflessiva e metaletteraria.
In Italia, il libro fondamentale nell’ottica del nostro discorso è stato Gomorra (2006), esempio di reportage in grado di conciliare impegno, aderenza alla realtà e utilizzo delle risorse romanzesche. L’opera di Saviano proseguiva una tradizione di testi dal taglio giornalistico come Campo di sangue (1997) di Eraldo Affinati e L’abusivo (2001) di Antonio Franchini, ma ha avuto un successo inaspettato e tale da rilanciare la presenza dell’intellettuale nel discorso pubblico. Allo stesso tempo, Gomorra veniva preso come modello di non fiction novel, cioè quella produzione a basso o bassissimo contenuto finzionale, in cui fatti, luoghi e ambienti reali sono descritti fedelmente, mentre l’apporto originale dell’autore sta nell’utilizzare le osservazioni per interpretare dinamiche che spesso risultano oscure. In queste opere lo spessore letterario non è dato dal tema, preso di forza dall’attualità, ma dal modo della trattazione.
Un ottimo esempio di romanzo ispirato ad un caso di cronaca nera è Elisabeth (2011) di Paolo Sortino, incentrato sulla storia di Elisabeth Fritzl, ragazza austriaca segregata dal padre per ventiquattro anni, dal 1984 al 2008. Le fasi del rapimento sono ricostruite con precisione grazie ai documenti del processo, ma l’autore adotta un punto di vista mobile capace di penetrare la psiche dei personaggi, offrendo così una rappresentazione originale dell’evento e irriducibile a qualsiasi resoconto giornalistico. La cronaca diviene così lo spunto per approfondire la psicologia della vittima e del carnefice, e ci spinge a scavare in luoghi torbidi della nostra mente.
Il ritorno alla realtà può anche conciliarsi con le convenzioni letterarie del così detto romanzo di genere, etichetta con cui si indicano il noir, il giallo, il romanzo rosa e il romanzo storico. Anche i romanzi di genere possono essere ispirati a precisi fatti storici ‒ Romanzo criminale (2002) di Giancarlo De Cataldo sulla banda della Magliana; M (2018, 2020) di Antonio Scurati su Mussolini ‒, ma la trattazione di essi è allo stesso tempo più e meno libera rispetto al non fiction novel.
Da una parte, infatti, le scritture di genere richiedono una minore aderenza alla realtà dei fatti, ma, allo stesso tempo, le convenzioni del genere impongono una precisa trattazione della vicenda. Detto in altri termini, le regole del giallo come le regole del romanzo rosa limitano la possibilità dello scrittore che, per andare incontro all’orizzonte di attesa del pubblico, non è libero di modificare a suo piacimento i dati da cui parte. Di conseguenza la visione della realtà offerta dalla letteratura di genere è sempre predeterminata dal genere stesso, e offre quindi una rappresentazione spesso semplificata – per non dire banale – degli eventi di cui tratta.
Un’ultima modalità di riappropriazione del reale passa attraverso il filtro dell’individualità: parliamo delle scritture biofinzionali, quelle opere che descrivono la vita di una persona realmente esistita – compreso l’autore; si parla, nel caso, di autofiction – unendo biografia fedele e invenzione. Anche all’interno di questo genere, si possono trovare sia opere a bassissimo contenuto di finzionalità, come il fresco vincitore del Premio Strega, Due vite (2020) di Emanuele Trevi, sia opere che sfruttano la realtà come puro pretesto per dar libero sfogo all’immaginazione autoriale. Esemplare in questo campo è Michele Mari, le cui biofiction non temono di avventurarsi nei territori del sovrannaturale ‒ si vedano Tutto il ferro della Torre Eiffel (2002) o l’autofiction Leggenda privata (2017).
Per quanto riguarda l’autofiction, però, il maestro indiscusso è Walter Siti che, con la sua trilogia autofinzionale pubblicata a partire dal 1994 con Scuola di nudo, ha diffuso il genere in Italia. Il gesto degli scrittori auto/biofinzionali, tra cui si contano i nomi più importanti del panorama contemporaneo, distanzia nuovamente la letteratura dal mondo, visto che l’attenzione viene posta su un individuo. Ma questa scelta, che da una parte denuncia la difficoltà di riappropriarsi e di raccontare la realtà nel suo complesso, testimonia anche un’acquisizione del Novecento post-imperialista: nessun oggetto di conoscenza è dato senza un soggetto che conosce. Perciò lo studio del singolo diventa la base per lo studio del mondo, tanto più che molti soggetti sono il paradigma di uno scorcio di realtà, così che lo studio del soggetto corrisponde allo studio del mondo.
Tutti questi cambiamenti dopo l’11 settembre? Come ogni data, l’11 settembre è un simbolo che sancisce una serie di mutamenti in atto, non riducibili a un solo evento, per quanto rilevante. È inoltre molto difficile avanzare periodizzazioni per tempi così ravvicinati, tanto più che l’ipotesi della fine del postmodernismo non è unanimemente accettata. Ma al di là delle etichette, le tendenze non sono mai prescrittive; indicano, piuttosto, la dominante culturale di un certo periodo, senza che essa esaurisca il campo dei possibili.
Uno scrittore, oggi, si trova di fronte a un repertorio molto vasto di scelte, che gli ultimi decenni hanno contribuito ad arricchire. Il suo scopo, allora, non sarà quello di elaborare opere postmoderniste o post-postmoderniste, ma proporre una visione originale della realtà, che faccia tesoro dei mezzi unici che la letteratura possiede per metterli a servizio di un dialogo con il proprio tempo e con i lettori.