Spazi e luoghi
come descrivere un allevamento intensivo con l’aiuto di Foucault
Riprendendo il titolo di uno dei report del WWF possiamo dichiarare che il nostro è «un pianeta “allevato”»: il 70% della biomassa di uccelli, oggi, è pollame destinato ad alimentare l’uomo, mentre gli uccelli selvatici rappresentano solo il 30%. Ogni anno, per finalità alimentari vengono macellati circa 50 miliardi di polli, il 70% proveniente da allevamenti intensivi. Per quanto riguarda invece i mammiferi: il 60% sono bovini e suini da allevamento, il 36% umani e appena il 4% animali selvatici.
Nella relazione Unaitalia per il 2021 si legge che «la produzione mondiale di carne si è attestata a 337,2 milioni di tonnellate, un valore analogo a quello del 2019»; una quantità sterminata di individui è quindi transitata per gli allevamenti produttivi e poi è stata trasformata in tonnellate di carcasse commestibili.
Ma che cos’è un allevamento? Vorrei riflettere un momento su quello dei bovini.
Il complesso edilizio nel quale è presente la stalla è una struttura di ampie dimensioni contenente vari impianti e spazi: vi sono la concimaia e le vasche di stoccaggio per i liquami che insieme provvedono alla gestione delle deiezioni animali; fienili, impianti di essiccazione, silos e mangimificio vengono adoperati per la conservazione e l’immagazzinamento degli alimenti; aree per i ricoveri macchine e infine le zone abitative, come la stalla comunemente intesa, la sala parto, quella per la / della mungitura e a volte la zona di svago esterna (paddock). Ogni attività ha un suo tempo e soprattutto un suo luogo.
Lo spazio non ha una connotazione meramente fisica, perché intratteniamo con quelle porzioni fisiche un rapporto di tipo storico-culturale, una relazione che oscilla tra immaginazione, potere, memoria e sapere.
Questo, come ci fa notare Micheal Foucault in Eterotopia (Mimesis, 2010), richiama la nozione di tempo. Lo spazio ha una storia: «[…] viviamo in un’epoca in cui lo spazio ci si offre sotto forma di relazioni di dislocazione».
Se nel medioevo lo spazio era gerarchizzato – c’erano posti protetti e altri privi di difesa, luoghi sacri e profani rigidamente codificati – a partire dagli studi di Galileo, Copernico e Cartesio dismette la sua statica verticalità e viene vissuto come un aperto infinito, non più dato una volta per tutte nella sua totalità.
Ma è solo la concezione odierna quella che rappresenta lo spazio «come un reticolo che incrocia dei punti e che intreccia la sua matassa»: in altre parole, come movimento continuo all’interno di un infinito – quello fisico dell’universo e quello di internet – le cui parti sono interconnesse.
Attraverso questa nuova prospettiva è aumentato l’interesse per l’organizzazione spaziale e sono sorti luoghi sempre più standardizzati e tecnicizzati ad hoc per il controllo delle attività e degli individui.
«[…] viviamo all’interno di un insieme di relazioni che definiscono delle collocazioni irriducibili le une alle altre e che non sono assolutamente sovrapponibili».
Esistono allora una molteplicità di spazi definibili tramite la loro qualità di essere fasci di relazioni e, fra tutti, alcuni «hanno la curiosa proprietà di essere in relazione con tutti gli altri luoghi, ma con una modalità che permette loro di sospendere, neutralizzare e invertire l’insieme dei rapporti che sono da essi stessi delineati, riflessi, rispecchiati».
Foucault parla di utopie e di eterotopie: le prime sono spazi senza luogo fisico che abitano il nostro immaginario e i nostri pensieri; possono essere analogie, opposizioni e perfezionamenti della società per come essa realmente è; le seconde sono contro-luoghi, utopie fisicamente realizzate che riescono a rappresentare, contestare e sovvertire tutti gli altri luoghi realmente esistenti.
Qui, occupandoci di allevamenti intensivi in quanto luoghi fisici realmente dati, ci concentreremo sulla descrizione delle eterotopie seguendo i sei principi indicati da Foucault, per cercare di capire di cosa parliamo quando parliamo di allevamenti.
Esistono due tipi di eterotopie, di cui uno in via d’estinzione: si tratta delle eterotopie di crisi, tipiche delle società del passato. Questi spazi venivano riservati ai soggetti in cosiddetto “stato di crisi” rispetto al resto della società, come gli adolescenti, le donne gravide – o nel periodo mestruale – e gli anziani. Spazi ad accesso esclusivo di chi, in un certo momento della sua vita, è biologicamente “diverso” dal resto dell’ambiente sociale.
Ad oggi queste eterotopie sono state largamente sostituite da quelle della deviazione; case di riposo, prigioni e cliniche psichiatriche, per esempio; posti in cui vengono relegati soggetti che manifestano comportamenti ritenuti devianti rispetto alla normalità e alle norme sociali.
Il primo principio ci informa quindi che qualsiasi cultura produce eterotopie, con forme sempre eterogenee; se ogni società umana origina i propri contro-luoghi vorrei allora cominciare a porre la domanda che guiderà la mia riflessione: cosa sono gli allevamenti?
Possiamo, al pari delle eterotopie di crisi, pensarli come luoghi in cui vengono marginalizzati degli individui a causa del loro essere biologicamente non-conformi alla regola? O possiamo forse credere siano eterotopie di devianza? In quanto luoghi fisici che hanno realizzato l’utopia del perfezionamento genetico degli animali, penso che possano essere considerati sia eterotopie della crisi sia, soprattutto, della devianza. Della crisi perché anche all’interno di un allevamento gli individui vengono separati o aggregati tra loro a seconda del loro orologio biologico, del sesso o della finalità, come le vacche cosiddette “da latte”, riunite in gruppi da 10-50 capi a seconda del periodo biologico nel quale si trovano, così da accelerarne il nuovo periodo di estro. Della devianza perché sono luoghi in cui rinchiudiamo chi non è umano per il solo fatto di essere biologicamente ed etologicamente diverso da noi allo scopo di servircene, di poterne disporre come meglio crediamo.
Il principio numero due di Foucault mette in chiaro come ogni eterotopia possieda un determinato funzionamento all’interno di una società con cui vive in sincronia (ecco perché la stessa eterotopia può avere funzionamenti diversi a seconda dell’ambiente e del tempo).
Esempio di questo principio sono i cimiteri: anche se esistono da sempre in forme più o meno similia quelle di oggi, nascevano spesso al centro della città, accanto alla chiesa, per simboleggiare l’identità storica e collettiva del paese. Oggi, con la loro dislocazione nelle periferie, questi luoghi hanno smarrito la loro capacità di fondare l’identità collettiva e di legare insieme vita e morte; è a questo punto che i cimiteri assumono connotati sacri, quasi fossero città altre dove ognuno conserva la sua memoria attraverso i loculi.
Anche qui il parallelismo mi sembra lecito: gli odierni allevamenti intensivi hanno un retaggio millenario che si perde nella storia della domesticazione. Tuttavia la pratica di allevare e addomesticare gli animali ha assunto forme diverse con l’evolversi delle società umane: da operazione domestica nel cortile comune a una o più famiglie, siamo passati per i macelli – di proprietà comunale o privati – nel centro città, vicino al mercato; per finire con la privatizzazione degli stabilimenti e la conseguente dislocazione degli animali – e della coscienza di quanto succede all’interno delle strutture – nella periferia.
Punto numero tre: l’eterotopia permette che luoghi incompatibili tra loro possano risiedere in un unico spazio, quello dell’eterotopia stessa.
Un esempio è il giardino persiano, un rettangolo sezionato in quattro parti con al centro un tempio sacro, circondato da vegetazione proveniente da tutto il mondo. In questo caso l’eterotopia mira a giustapporre entro il giardino il mondo intero con le sue diverse dislocazioni spaziali, in uno slancio universalizzante.
Ma altrettanto emblematico è ancora una volta l’allevamento.
D’altronde all’interno della struttura zootecnica troviamo luoghi che tra loro stonano: abbiamo le cuccette per il riposo delle vacche, la zona di alimentazione, la sala di mungitura, la sala parto, la zona carico-scarico del bestiame e il macello; spazi dove sono confinate svariate specie e razze, il più delle volte non autoctone. In questo senso l’allevamento è il tentativo di raccogliere in un unico stabile l’intera vita animale, al fine di farne un qualcosa di meccanico.
Secondo il quarto principio le eterotopie sono in qualche modo delle eterocronie, ossia luoghi in cui i soggetti rompono con il tempo tradizionale per accedere a un tempo diverso.
Anche qui però ci sono due tipi di eterotopie-eterocronie: quelle dove il tempo si accumula senza sosta, quali le biblioteche o i musei, che tendono a eternizzare il tempo, e quelle croniche. Quest’ultime sono molto più comuni, le vediamo in ogni angolo della strada, luoghi in cui il tempo si fa futile – fiere, villaggi vacanze –e viene speso senza sosta, quasi solo per consumarlo.
Gli allevamenti certamente non preservano le identità dei soggetti che vi transitano, e non esistono biografie senza soggetti; tuttavia, esistono registri che – per qualche tempo – tengono traccia di nascite, parti, morti, prodotti, e del confezionamento di questi corpi. Certo, non è il desiderio di eternizzarli che muove alla stesura di questi elenchi, bensì normative utili al controllo, alla vendita e al consumo dei prodotti di origine animale; eppure, in qualche modo, sono simili al primo tipo di eterocronie.
Al contempo nessuno si sognerebbe mai di spendere le proprie giornate in un mattatoio o in un allevamento, motivo per cui è difficile pensare a questi luoghi come eterotopie croniche; ma, ancora, molti di noi probabilmente avranno visto o frequentato i mercati o le fiere zootecniche dove gli animali non-umani vengono presentati come merce o come oggetti da guardare.
Il penultimo principio, il quinto, ci dice che tutte le eterotopie sono isolate da un sistema di apertura e chiusura; si può accedervi per costrizione – come per la prigione – oppure tramite una serie di riti, ma non è mai concesso entrarvici senza permesso.
Nessuno di noi può entrare in un allevamento, è proprietà privata. Tra l’altro per poterne varcare la soglia ci sono norme igieniche da rispettare, requisiti da possedere (essere un operatore zootecnico o un veterinario, ad esempio). Ma non è così per gli animali non-umani: vi accedono per costrizione e una volta all’interno non hanno modo di uscirne vivi.
L’ultimo principio avverte della funzione illusoria e di quella di compensazione connaturate a tutte le eterotopie. Da un lato, infatti, possono creare uno spazio che tramite questa sensazione di irrealtà rivela la natura fittizia dei luoghi quotidiani; dall’altro possono invece creare un ambiente altamente performante, perfetto, tanto da far sembrare disorganizzato e confuso ogni spazio esterno.
Esempio del primo caso erano le case chiuse, del secondo le colonie del XVII secolo.
Un allevamento, a chi lo vede per la prima volta, può dare l’impressione di un luogo spaesante e insieme efficiente: gli allevamenti intensivi realizzano il sogno di avere animali perfezionati ai nostri bisogni, tempi e desideri. Tutto sembra essere organizzato nei minimi particolari: le nascite, i periodi di veglia e di sonno, le percentuali di massa grassa e magra, l’alimentazione, gli accoppiamenti, la morte e i resti terrestri degli animali sono tutti studiati e manipolati al fine di avere la massima efficienza aziendale in termini di profitto. Una sensazione che fa sì apparire il resto del mondo caotico, ma al contempo crea l’illusione secondo cui la vita sia governabile, che si riduca al calcolo esatto di percentuali e guadagni.
Lo spazio, ci ricorda Foucault, è organizzato e frammentato per gestire gli individui e renderli utili a quella macchina produttiva che è la società stessa, con i suoi meccanismi di potere. Questa spazialità performante che strizza l’occhio al dominio è ancora più evidente negli allevamenti, dove tutto è inframezzato da recinti, sbarre di ferro e macchinari che impediscono qualsiasi gesto spontaneo, non previsto o non manipolabile.
Se lo spazio è una dimensione del potere allora queste eterotopie, questi contro-luoghi, gli allevamenti, così lontani dalla vita e dagli ambienti a noi familiari, sono una finestra sull’inedito, su forze presenti ma quasi invisibili che tuttavia pervadono la nostra società e le nostre vite. Guardare dentro di essi è inquietante perché mina il nostro senso comune: attraverso gli allevamenti accediamo a luoghi dove non sappiamo come muoverci, ed è proprio grazie a questo stordimento, alla messa in discussione del nostro vivere che si aprono nuove possibilità di vita. Per tutti.