“Boris Godunov” di Aleksandr Sergeevič Puškin
nell’Epoca dei torbidi
«La mia tragedia è terminata; l’ho riletta ad alta voce, da solo, e poi mi sono messo a battere le mani e a gridare: bravo Puškin!», Lettera di Aleksandr Sergeevič Puškin a Pëtr Andreevič Vjazemskij del novembre 1825
È il 1826. Aleksandr Sergeevič Puškin, dopo due anni di esilio nella tenuta materna di Michajlovskoe, può finalmente ritornare a San Pietroburgo. Nonostante venga anche riammesso a corte, lo zar Nicola I continua a controllarlo da vicino. Nel tentativo di mettere a tacere tutte le voci considerate pericolose, il sovrano aveva instaurato una macchina di censura che colpiva gli autori più importanti dell’epoca, e si nomina censore personale di Puškin, leggendo e modificando attentamente tutto quello che scrive. Per questo motivo anche l’opera composta durante l’esilio deve essere ritoccata, non può essere pubblicata nella sua forma originale. Si tratta di Boris Godunov, un dramma teatrale che avrà un fortissimo impatto sull’evoluzione del teatro russo, ma che forse è ancora più nota nel suo adattamento per l’opera a cura di Modest Musorgskij.
Scritta nel 1825, pubblicata per la prima volta nel 1831, Boris Godunov (edito in italiano da Marsilio Editori, a cura di Clara Strada Janovic) si svolge in uno dei periodi più turbolenti – e interessanti – della storia russa. Si tratta della cosiddetta “Epoca dei torbidi”, che va dal 1598 al 1613. Questi anni di forte instabilità sono caratterizzati dal continuo succedersi di nuovi sovrani, a partire dalla morte dello zar Fëdor, il figlio dello zar Ivan il Terribile. Questi sovrani, però, hanno tutti una particolarità: nessuno di loro è in realtà il legittimo erede al trono. E il primo è proprio Boris Godunov. Potente boiardo, Godunov si fa largo all’interno della corte fino a diventare reggente del giovane e cagionevole zar Fëdor. Durante gli anni del regno di Fëdor, è di fatto Godunov a comandare e quindi decide di far allontanare l’ultimo figlio di Ivan il Terribile, Dmitrij, all’epoca ancora bambino. Dmitrij muore in circostanze misteriose nel 1591 e molti sostengono che sia stato proprio Godunov a ordinare l’uccisione del bambino. Nel 1598, muore anche Fëdor e, in mancanza di altri eredi diretti, Godunov viene nominato zar. Il regno del nuovo sovrano viene però ostacolato dalla comparsa di un ragazzo che afferma di essere Dmitrij, l’ultimo figlio di Ivan il Terribile. Iniziano da qui una serie di lotte interne, che – dopo un susseguirsi di “Falsi Dmitrij” e altri impostori – porteranno all’ascesa della dinastia Romanov.
L’opera di Puškin copre proprio il periodo che va dall’incoronazione di Boris Godunov a quella del primo Falso Dmitrij. Puškin sposa la visione storica di Nikolaj Karamzin, autore della Storia dello Stato russo. Infatti, come Karamzin, Puškin fa di Godunov il mandante dell’assassinio dello zarevič Dmitrij, versione, questa, non storicamente accertata.
Tra le fonti di ispirazione di Puškin, però, non c’è solo Karamzin. Nel suo Abbozzo di una introduzione al Boris Godunov, il poeta russo scrive:
Ho imitato Shakespeare nella sua libera e ampia raffigurazione dei caratteri, nella incurante e semplice composizione dei piani.
Puškin era convinto che il teatro russo dovesse essere modernizzato, e che per farlo si dovesse partire proprio da Shakespeare. Ecco perché Boris Godunov era una delle opere che il poeta aveva più a cuore, perché sentiva la responsabilità di questo cambiamento. Sempre nel suo Abbozzo confessa:
Ho esitato a lungo prima di affidare alla stampa il mio dramma. Successo o insuccesso delle mie poesie […] hanno finora turbato ben poco il mio amor proprio. […] Ma confesso sinceramente che l’insuccesso del mio dramma potrebbe essermi fonte di rammarico in quanto sono fortemente convinto che al nostro teatro convengano le regole del dramma shakespeariano.
Come le opere del drammaturgo inglese, il Boris Godunov è scritto in versi e utilizza tutti i registri linguistici presenti nel russo, dalla lingua della chiesa fino agli insulti più volgari. Mancano poi le unità tipiche del teatro classico – di spazio, tempo e azione –, prediligendo invece una grandissima varietà di scenari e ambientazioni diverse. Questo, insieme all’elevato numero di personaggi, è l’aspetto che ne ha reso sempre difficile la rappresentazione. Ma forse è proprio nella costruzione dei personaggi tragici che si nota ancora di più l’influenza shakespeariana. Infatti, se anche non fossimo a conoscenza di questa diretta ispirazione, saremmo comunque portati ad associare Boris Godunov ai personaggi di Shakespeare. Come Macbeth, lo zar usurpatore si macchia dell’assassinio del sovrano legittimo e il senso di colpa gli toglie il sonno. Tutti sanno quello che Godunov ha fatto, ma nessuno osa dirlo ad alta voce. Solo una persona, in tutta l’opera, ha il coraggio di accusare pubblicamente il sovrano: è lo jurodivyj, il cosiddetto “folle in Cristo”, che dà voce agli incubi dello zar:
I ragazzi mi hanno maltrattato… Ordina che siano uccisi, come tu uccidesti il piccolo zarevič.
Ovviamente, non è possibile ridurre il dramma di Puškin a una rivisitazione in chiave russa della tragedia di Shakespeare. Ci sono tantissimi aspetti del Boris Godunov che la rendono un’opera unica. Uno di questi è la centralità che Puškin dà al popolo, come entità corale. Sebbene il protagonista sia Boris Godunov, è in realtà il popolo a decidere le sorti della storia. Così Godunov passa dall’essere un sovrano benvoluto, all’essere ripudiato e sostituito con il falso Dmitrij. La centralità del popolo viene anche ribadita alla fine dell’opera, che si chiude con «Il popolo tace». Il mutismo finale rappresenta quasi un presagio di sventura: il periodo di instabilità è appena iniziato.
A posteriori, Boris Godunov ci sembra la rappresentazione di un destino nazionale. Nonostante sia schiacciato, vessato e umiliato, il popolo russo ha poi sempre la capacità di piegare la storia alla sua volontà, nel bene e nel male.