Chi sono gli animali?
Fin da piccoli siamo abituati a parlare di “animali”. Ci insegnano a replicare con delle onomatopee i versi dei cani, dei gatti, delle mucche e dei maiali; sentiamo un cane abbaiare e subito spunta il “bau”. Crescendo impariamo a distinguerli in specie e così ogni volta che passa un gatto per strada lo indichiamo dicendo “gatto”, tra le gioia di amici e parenti. Ma quanti di noi prima di fare il verso “muuu” avevano già visto una mucca, quanti l’avevano toccata vedendola pascolare?
Siamo soliti indicare come “animale” tutto ciò che non è né umano, né vegetale, né mera cosa; ma chi sono gli animali? La risposta è che siamo anche noi. Noi, per quanto da sempre ci affanniamo nel tentativo di scordarcelo, siamo parte del regno animale; ma allora perché dividere umani e animali?
Fin dall’antichità l’uomo ha cercato di attribuirsi delle caratteristiche che lo rendessero speciale rispetto al resto degli animali non umani, che fosse il possesso del linguaggio, di un’anima immortale o di connotati morali, non si è mai visto come una tra le tante specie. Già nei Memorabili, Senofonte enuncia la tesi antropocentrica secondo cui gli animali sono stati creati per l’utilizzo umano. Questa visione dominerà per gran parte del tempo la cultura occidentale, da Aristotele al Cristianesimo fino a Cartesio, passando per Kant ed Hegel, resistendo sino ai giorni nostri nonostante vari tentativi di opposizione.
L’animale è da sempre teorizzato, e nella teorizzazione cristallizzato, attraverso la negazione di ciò che comunemente viene ritenuto umano, si dice che l’animale non parla, non ragiona e non capisce, addirittura si è pensato che fosse una macchina-automa incapace di provare sensazioni, limitandosi a imitarle. “Animale” viene anche spesso usato in contrapposizione a “spirituale”, come un fatto puramente corporeo, materiale, privo della dignità che spetterebbe all’uomo; oppure, ancora, è sinonimo di bestia, di persona grossolana, di mostruosità.
Ma questo termine non significa certamente il nostro amico a quattro zampe che siede sul nostro divano, per lui disponiamo di un nome, di affetto e di cure. A dir il vero “animale” è un termine collettivo, una sorta di calderone nel quale facciamo confluire una miriade di specie differenti e di individui diversi, a scapito delle loro soggettività.
La cosa interessante è che quando utilizziamo dei termini collettivi immediatamente le vite su cui ricadono smettono di avere individualità: animale è la medusa che in estate ci dà noia impedendoci di tuffarci in mare, è un branco di caprioli in montagna, è la mosca che ronza in cucina, ma raramente “animale” è una vita singola e unica. Non vediamo più, o meglio, non abbiamo mai visto degli individui ma un unico insieme indistinto, caratterizzato per certe uniformità di comportamento che diamo per ovvie. Pensiamo che gli animali siano ciò che fanno e se tutti sono istintivi, privi di ragione e senza linguaggio, allora il gioco è fatto, eccoli uniformati. In realtà le cose sono più complesse e ci coinvolgono in infiniti modi; al di là delle differenze e somiglianze biologiche è importante notare – e chi vive a contatto con individui non umani lo capirà – che ognuno ha delle proprie inclinazioni, peculiarità ed esigenze molto soggettive. I profani, cioè coloro che non sono scienziati di formazione o professione, sono infatti più inclini a pensare che anche gli animali abbiano un loro punto di vista sul mondo, diano giudizi e compiano scelte intenzionalmente, e credo che molti di noi potrebbero essere d’accordo con questa posizione pensando al proprio animale domestico.
Tuttavia, nella grande maggioranza dei casi, siamo soliti pensarli come semplicemente “altro”, ma questo concetto implica necessariamente che vi sia qualcuno che non sia l’altro, un qualcuno che sia normativo e per questo funga da paradigma per definire l’alterità; questo qualcuno postulato a priori è sempre stato l’uomo.
L’uomo è stato definito in svariati modi, da Aristotele come “zoon logon echon” o “ zoon politikon”, al cristianesimo che l’ha definitivamente posto come dominatore di tutto il creato, fino all’età moderna che con il contrattualismo e il giusnaturalismo l’ha reso l’unico detentore di diritti; in tutta la storia occidentale l’animale ha assunto il ruolo di polo negativo ed eterno escluso, e dopo Darwin, è divenuto una sorta di antecedente dal quale prendere le distanze tramite il progresso della ragione. Ma è importante ricordare che l’ “animale” è sempre un’allegoria, a volte simbolo di vizi, altre di virtù; si pensi ad esempio a quando si usano espressioni come “lento come una tartaruga” o “furbo come una volpe”, il riferimento non è mai la tartaruga, o la volpe, ma piuttosto un umano che incarna delle abilità positive o negative: l’animale scompare, si parla sempre di umani.
Quanti significati può avere il termine “animale”? Infiniti. I termini non rispecchiano un dato biologico, o un corpo, ma anzi ogni significante è portatore di significati che vanno a installarsi sul referente di tale termine. Non esiste un accesso neutrale alle cose, tutto ciò che viene nominato è caricato di connotati simbolici e culturali, persino nelle metafore e nei luoghi comuni usiamo gli animali come termini collettivi, si pensi ad esempio a frasi come “ si è imbestialito“ o “ non siamo animali”, ma anche a quelle dispregiative come “ sei un verme” e a quelle positive, come ad esempio “avere un cuor di leone”; attribuiamo a noi stessi delle virtù che apprezziamo e pensiamo di rivedere in altri soggetti non umani e disprezziamo vizi che ci accosterebbero a certe specie. Ma tutto questo intenso lavorio non è privo di ripercussioni perché il limite arbitrario tra l’umano e l’animale ha prodotto e produce discorsi discriminatori che legittimano l’oppressione di animali e umani. Perché se l’animale è percepito come un bestia priva di ragione, come un antenato da cui prendere le distanze, o come mezzo di cui servirsi, allora ogni caratteristica o comportamento in comune con quel regno saranno percepiti come una disgrazia, ogni avvicinamento all’animalità sarà carico di pericolo.
Cosa vuol dire essere trattato come un animale? Non possiamo saperlo, possiamo però dire che nella percezione comune equivale a essere trattati come carne, come mero corpo privo di soggettività, ed effettivamente quando parliamo di animali ci limitiamo ad recitare un elenco di specie apprese, con altrettante caratteristiche date per certe che difficilmente abbiamo potuto constatare di persona: non abbiamo interesse per la soggettività di ogni animale, ma ci accontentiamo di recitare dei cliché.
Essere ridotti a stereotipi ha dei rischi, primo fra tutti, come dicevamo dei termini collettivi, si perde l’individualità, non si hanno caratteristiche particolari e soggettive ma solo comportamenti determinati, il che fa sì che la parte qualitativa perda valore, si divenga numeri, esemplari intercambiabili. È ciò che avviene con gli animali da macello, con gli animali ritenuti infestanti e con quasi tutte le specie non protette.
Ma se il limite tra umano e animale fosse varcabile in qualche modo, se alcuni animali fossero trattati come comunemente trattiamo le persone e, invece, alcune persone fossero trattate come solitamente trattiamo gli animali? Nella nostra storia umana ci sono stati svariati casi in cui questo è avvenuto. In Egitto alcuni animali, come ad esempio il gatto, erano considerati sacri tanto da poter parlare di zoolatria, non godevano invece di rispetto e attenzioni gli schiavi della Grecia antica che erano considerati mezzi a disposizione del loro padrone. Anche ai giorni nostri abbiamo alcuni esempi simili, vediamo animali domestici agghindati in abiti che ricalcano quelli umani e umani senza abiti costretti a dormire all’aria aperta come fanno certi animali selvatici. L’animalità non è più, e probabilmente non lo è mai stata, una questione meramente di specie, il riconoscimento è sempre un qualcosa che ci viene dato dall’esterno: così come possiamo dirci umani tramite la definizione dell’animale come negativo, altrettanto possiamo finire per essere considerati animali, meri corpi, pur appartenendo alla specie homo sapiens sapiens. Il riconoscimento come individui portatori di soggettività e dignità propria, a prescindere dalle proprie azioni o arbitrio altrui, è ciò che ci può garantire, o precludere, una vita che sia tutelata e rispettata e questo vale tanto per noi che per il resto degli animali. La cosa pare evidente quando sentiamo di persone abbandonate alla fragilità e vulnerabilità della vita, senza diritti né tutele, come nel caso delle guerre e dei genocidi dove gli individui smettono di essere soggetti per ridursi a numeri di una popolazione, ormai indistinguibili fra loro; ma purtroppo non sempre appare ugualmente scioccante quando si parla di animali sterminati in massa.
Pensare l’essere animali in questi termini, cioè l’essere un mero corpo soggetto a ogni tipo di minaccia capiti a tiro, dovrebbe farci riflettere sul ruolo che ha giocato la dicotomia uomo-animale e su quanto il reiterare espressioni, discorsi e comportamenti basati su questo confine arbitrario sia pericoloso per tutti. Il linguaggio è già un’azione, plasma la realtà, produce dei comportamenti ed è importante quindi usarlo consapevolmente, sapendo che crea possibilità ma anche disparità. Bisogna inoltre tenere a mente che senza l’ “Altro” non ci sarebbe nemmeno il “Noi”, che l’uomo per come lo conosciamo è sorto e si sorregge su esclusioni e violenze che coinvolgono le più disparate forme di vita, segno questo che rivedendo i confini posti tra animalità e umanità, probabilmente, si giungerebbe a cambiare la stessa forma di convivenza tra specie. Ma soprattutto bisogna aver chiaro che “l’animale” come “l’umano” non esiste, non sono fatti certi e immutabili, dati una volta per tutte; sono piuttosto costrutti culturali che come tali mutano e si sviluppano nel tempo avendo poco a che fare con i dati biologici e oggettivi.
Interrogarsi sul modo in cui percepiamo gli animali, sul modo in cui parliamo di questi, non è un’azione che non coinvolge l’umano, tutt’altro, è l’azione che permette di cogliere cosa siamo disposti ad accettare e divenire.