Federica Nardiello
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Christa Wolf e i tre libri sulla linea del tempo

"Il cielo diviso", "Guasto. Notizie di un giorno" e "In carne e ossa"

Christa Wolf e i tre libri sulla linea del tempo

Il mio approccio con Christa Wolf non può definirsi lento e graduale; non ho immerso i piedi nell’acqua per sentire se fosse fredda; mi sono tuffata a capofitto, facendomi travolgere dalle onde in pochissime settimane. Sarà forse una coincidenza, ma i tre libri che ho letto possono essere collocati su un’immaginaria linea del tempo e ci aiutano a comprendere più profondamente un’autrice geniale e poliedrica, impegnata politicamente, attenta alla lingua come mezzo per rappresentare sé stessa. Inoltre, il fatto che siano passati diversi anni tra la pubblicazione di un libro e l’altro ci permette anche di scorrere attraverso gli eventi del mondo e della Germania in particolare, da quando era spaccata a metà, al suo rapporto con la Guerra fredda, fino ai primi anni dell’avvento della globalizzazione.

Il cielo diviso è il primo romanzo in questione. Viene considerato uno dei classici della DDR, dove è stato pubblicato nel 1963, per arrivare nella Germania di Bonn l’anno successivo e nel resto d’Europa, attraverso numerose traduzioni. In Italia, la prima è di Maria Teresa Mandalari ed è stata stampata nel 1983 da Edizioni e/o. Un libro fortemente criticato dal punto di vista politico e letterario, che funge tuttavia da bastione storico tedesco, culminante nella costruzione del muro di Berlino il 13 agosto 1961: è questo l’evento verso cui viaggia la storia d’amore tra Rita e Manfred, come percorso antecedente di una società destinata a dividersi. I due amanti, infatti, impersonificano i poli estremi dell’est e dell’ovest, nei loro pensieri, atteggiamenti, impieghi e responsabilità.

Rita è una giovane diciannovenne piena di speranza per il futuro, positiva nei confronti della società, che sogna di diventare maestra e si trasferisce da una piccola cittadina di periferia in una grande città della Germania dell’est per lavorare in una fabbrica di vagoni durante l’estate, dove avrà occasione di entrare in contatto con il lavoro dei suoi compagni socialisti e i sentimenti di solidarietà e partecipazione che li contraddistinguono, facendosi conquistare dai loro ideali. Quello di Rita – e di Christa Wolf stessa – è dunque il romanzo di formazione interiore di una giovane donna che, grazie all’esperienza, diventa consapevole del suo posto in società, al cui interno, prima di essere una donna, è una persona, con diritti e doveri da cui è impossibile scappare. Rita non ha intenzione di fuggire, ma di resistere e combattere.

Non la pensa allo stesso modo Manfred, un uomo dieci anni più grande che, nonostante il suo amore indissolubile per Rita, avverte intorno a sé un enorme pessimismo verso l’ambiente che lo circonda, la sua famiglia e il socialismo. Plasmato da una profonda indifferenza per ogni cosa, Manfred è un chimico di una certa esperienza, ma un progetto andato in fumo lo farà sentire un fallito; e sebbene Rita tenti di risvegliare in lui la fede socialista, si trasferirà a Berlino ovest da una zia per dare una svolta alla sua carriera. Manfred inviterà Rita ad andare a trovarlo e a considerare Berlino ovest il luogo in cui poter costruire una vita insieme. Tuttavia, sin dall’inizio della narrazione, sappiamo che il destino di questi due giovani sarà segnato dalla costruzione di un muro che li dividerà, e non solo:

Un tempo, le coppie d’amanti prima di separarsi cercavano una stella, su cui i loro sguardi la sera potessero incontrarsi. Che cosa dobbiamo cercare noi? «Il cielo almeno non possono dividerlo» disse Manfred beffardo. Il cielo? Tutta questa cupola di speranza e di anelito, di amore e di tristezza? «Sì, invece» disse lei piano. «Il cielo è sempre il primo ad essere diviso».

Non la gelosia, non i litigi e nemmeno la discordia seminata dalla famiglia di Manfred, ma l’andamento della Storia, la politica, la società saranno le cause della rottura.

Ma Christa Wolf non prende una posizione, non si schiera. Mette solo in evidenza la realtà, rifiutando qualsiasi sperimentalismo linguistico. Tuttavia, come giustamente sottolinea la traduttrice, «si palesa la [sua] concezione etico-culturale […] A chiare lettere respinge il relativismo morale, il lassismo edonistico, il fariseismo opportunistico, l’egocentrismo sterile, il rassegnato fatalismo, […] la fuga dalla verità, personale e ambientale».

A Berlino ovest Rita si sente un’estranea nella sua stessa patria. Decide così di tornare ad est, di rimanere dove «tutto è calore e intimità» – come dirà al suo insegnante – e di lavorare ancora in fabbrica, dove avrà un incidente, ritrovandosi quasi completamente schiacciata da due vagoni.

È qui che inizia la narrazione, procedendo su due piani temporali: quello di Rita in sanatorio e quello che, attraverso l’espediente del flashback, la vede tornare indietro al tempo della giovinezza, della relazione con Manfred, alla disperata ricerca dell’errore che ha portato alla loro separazione. Eppure, non vi è errore nel momento in cui il procedere storico risulta inarrestabile.

Christa Wolf dimostra di rifuggire da ogni tipo di ambiguità e crittografia linguistica, spesso descrivendo la realtà in modo semplice; allo stesso tempo il realismo poetico che permea le descrizioni psicologiche dei personaggi raggiunge climax unici; l’autrice dichiara apertamente la convinzione che «in definitiva, è sempre dal singolo individuo, dal suo maturo senso di responsabilità e dalla sua tenace buona volontà, che dipende comunque, sia a oriente come a occidente, la possibilità di un futuro migliore». E anche se il suo è un approccio critico, Il cielo diviso è il prato nel quale l’autrice cammina, convinta di prender parte – e assicurare attraverso il suo operato letterario – a quell’utopia socialista vitale come un fiore che sboccia in primavera.  

Il secondo libro, invece, vede la stasi dell’autrice, un’impotenza che le blocca il cammino e la comunicazione. Christa Wolf descrive un evento il cui toponimo Chernobyl non viene nemmeno mai nominato, che ha rappresentato una svolta decisiva nel mondo. Pubblicato nel 1987 ancora per Edizioni e/o nella traduzione di Anita Raja, Guasto. Notizie di un giorno racconta una giornata, di certo non una giornata qualsiasi. Sin dall’incipit, l’intento dell’autrice è quello di suggerire al lettore le catastrofiche connotazioni che un evento simile produce sul linguaggio:

Un giorno, di cui non posso scrivere al presente, i ciliegi saranno fioriti. Io avrò evitato di pensare “esplosi”; i ciliegi sono esplosi, come ancora l’anno prima potevo non solo pensare ma anche dire senza esitazione, pur se non più con l’assoluta inconsapevolezza di una volta.

Il termine ‘esplodere’ perde la connotazione poetica riferita alla primavera per sostituirsi alla morte e all’aridità. D’altronde, Christa Wolf utilizza l’espediente del disastro nucleare in tempo di pace per raccontare i guasti che spesso colpiscono i corpi umani: la narrazione – che si fa letteratura, dato che l’arco temporale della stesura del testo è giugno-settembre 1986 – comprende non solo l’evento pubblico, ma anche quello privato. All’avaria-Chernobyl si affianca l’avaria del fratello dell’autrice, che proprio il 26 aprile 1986 è sottoposto alla rimozione del cancro al cervello. Inquietudine al tempo stesso pubblica e privata quella vissuta dalla voce narrante nella sua casa di campagna nel Meclemburgo, lontana e al contempo vicina, trattandosi di suo fratello.

L’autrice riflette, andando nel profondo della sua coscienza, in un affastellamento di strade tortuose che spesso giungono a vicoli ciechi, sul passato e sul presente, sulla crisi della pace e dell’utopia socialista; sulla tendenza dell’essere umano all’autodistruzione incondizionata e su come i media tendano a spettacolarizzarne il dolore con un linguaggio calcolato – che investe anche e forse soprattutto la sfera privata –, giungendo a una forma di disgusto per la parola propria e degli altri. Quello che ne scaturisce, inoltre, è la crisi dell’intellettuale e di quella che i tedeschi chiamano Weltӧffentlichkeit, un’opinione pubblica di cui, dopo la caduta del muro, smette di essere il portavoce.

Il tumore al cervello non può essere un caso, dato che si tratta della sede in cui ha origine il linguaggio, e dove del resto si determina il nostro essere: per Christa Wolf, Chernobyl ha, prima di tutto, guastato il linguaggio, che a sua volta ha guastato il mondo: «Evacuazione, fratello, è una di quelle parole che per tutta la vita non riusciremo più a separare dalla nostra esperienza».

A collaborare alla distruzione della società e degli uomini che la compongono, interviene la televisione, poiché oramai «dopo le fatiche della giornata […] tutti vogliono star seduti in poltrona […] e bere la loro birra, e vogliono che gli si mostri qualcosa che li rallegri, e può essere benissimo un ingarbugliato caso di omicidio, ma non deve riguardarli troppo, e questo è il comportamento normale a cui ci hanno educato, sicché sarebbe ingiusto rimproverarli solo perché quel comportamento contribuisce a ucciderci». Susan Sontag, sei tu?

Emerge, dunque, uno dei temi cari a Christa Wolf, apparso solo timidamente ne Il cielo diviso, ora palese in modo più aggressivo e pessimistico: la vocazione all’autodistruzione della nostra cultura – accompagnata dalla critica dei miti del progresso e dello sviluppo – che inevitabilmente porta alla malattia del singolo individuo, nucleo centrale del terzo libro in questione.

In carne e ossa – infatti – è il romanzo in cui l’autrice si rassegna a raccontare le aspettative politiche e sociali deluse, attraverso il declino psicofisico di un corpo. Un corpo inspiegabilmente malato, che nonostante le cure continua ad ammalarsi. È il capolinea, l’ultimo romanzo edito di Christa Wolf. L’approdo di un autunno linguistico e idealistico.

Pubblicato nel 2002, sempre da Edizioni e/o e tradotto da Anita Raja anche questa volta, il racconto si concentra su una donna malata – chiamata per lo più in maniera asettica ’paziente’ – di cui non sapremo mai il nome, probabilmente in quanto la malattia, ormai, in forme diverse, investe ogni singolo individuo della società.

La porzione di realtà raccontata è uno spicchio del 1988, a un passo da quello che per l’autrice è l’epilogo della società in cui sperava di vivere, dove in fin dei conti spererà di vivere fino a cinque giorni prima della caduta del muro di Berlino, quando alla manifestazione di Alexanderplatz del 4 novembre 1989 farà un appello ai cittadini berlinesi, cercando di esortarli a mantenere il socialismo, in un contesto nel quale, ciononostante, il degrado di quegli ideali incombe inesorabile.

Nei momenti di lucidità tra un’operazione e l’altra, la paziente osserva il cielo di una Berlino ancora divisa, lo stesso che probabilmente ha separato per sempre Rita e Manfred. Tuttavia, questo corpo affronta un percorso delirante attraverso gli stretti labirinti bui di una coscienza la cui azione ultima è di ammalarsi, incapace di fare altrimenti. Come scritto in quarta di copertina, è una discesa agli inferi quasi dantesca, dove l’infermiera Kora Bachmann – dove il cognome Bachmann non può essere che un omaggio – non solo scandisce l’alternanza del giorno e della notte, ma assume il ruolo di Virgilio, una guida verso la guarigione.

Questa potrà essere raggiunta solamente camminando a ritroso nel passato nella memoria, nella possibilità di raccontare i ricordi e mantenerli vivi. In un febbrile e perpetuo discorso indiretto, la protagonista ripercorrerà le strade di Berlino sotto ai bombardamenti del ’44 insieme a Kora, sorvolando la città come la Margherita di Bulgakov farà su Mosca; raggiungerà le stazioni di controllo al confine delle Germanie divise, finché – una volta raggiunto l’inferno – riuscirà a liberarsi di un male che affligge da anni la sua famiglia, ma anche l’intera società tedesca.

Wolf utilizza un linguaggio allucinato, instancabile e frenetico, anch’esso malato e giunto a una crisi totale.

Finalmente mi viene in mente una parola calzante per questo stato di cose: intossicazione, penso. Una vera scoperta. È sorprendente che giunga così tardi. E che sia così faticosa. Più faticosa della stessa intossicazione. L’infezione forse c’è stata molto tempo fa, il decennale periodo di incubazione è trascorso, ora esplode la guarigione in forma di malattia grave.

I termini utilizzati dall’autrice non sono mai scontati. Torna qui la parola ‘esplodere’, come nell’incipit di Guasto, e anche qui l’incipit è più che significativo: Verletzt – ‘Ferita’. Una sola parola, mille significati. La ferita aperta che squarcia la coscienza di Christa Wolf non è solamente carnale, ma anche morale, sociale, politica e umana.

Chiude così la sua carriera l’autrice sognatrice che mi ha travolto, con una sorta di amara consapevolezza, ferma nelle illusioni del passato; un immobilismo che la porta a voltare le spalle alla crudeltà del presente, che tuttavia persiste con una narrazione più che attuale. Christa Wolf ha lottato, con le parole, affinché il suo sogno diventasse anche il nostro. Un sogno che, in conclusione, assume una bellissima forma: a scrivere è sempre una donna. Rita, una sorella, una donna malata. Perché è la scrittura femminile il primo atto contro l’imposizione di un patriarcato che, oggi come nel socialismo di Christa Wolf, non può esistere.