Erica Gariboldi
pubblicato 5 anni fa in Altro

Cose che parlano di noi

un antropologo a casa nostra

Cose che parlano di noi

Trenta appartamenti affacciati sulla stessa via di South London, diciassette mesi di indagine sul campo, due studiosi: l’antropologo Daniel Miller e la sua dottoranda Fiona Parrott.


The Comfort of Things (2008) – di cui in italiano è stata tradotta una selezione (Cose che parlano di noi, Il Mulino, 2015) – è un testo incentrato sulle modalità in cui tramite le cose (oggetti, arredi, dischi, fotografie, giocattoli, soprammobili…) ognuno di noi costruisce all’interno della propria abitazione articolate cosmologie, che altro non sono se non una sostanzializzazione del proprio sé e delle sue relazioni con l’esterno. Qui gli oggetti, acquistati o ereditati, ricevuti in dono o trovati per caso, si affrancano definitivamente dalla loro accezione negativa di omaggi al consumismo e veicoli di isolamento dal mondo. Al contrario, vengono valorizzati proprio nel loro ruolo di costruttori e perpetratori di relazioni sociali, familiari e, in un certo senso, intrapersonali.

Il testo è strutturato in trenta “quadri domestici”, ciascuno abilmente trasformato dalla prosa scorrevole dell’autore in un laboratorio di osservazione partecipante nella vita degli abitanti non di semplici case-edifici, ma di microcosmi dotati di un senso e un ordine proprio, da rispettare in quanto autentici senza cadere nell’errore di liquidare come superficiali solo perché legati ad elementi materiali.

La conclusione a cui sono arrivato è che esiste un modo inedito in cui l’altropologia (e non la psicologia) può analizzare questi mondi domestici. Questo è un libro sul modo in cui gli uomini si esprimono attraverso le cose che possiedono, su tutto ciò che queste cose ci dicono della loro vita.

Miller ci induce a riflettere sul fatto che in un mondo in cui le cose aumentano a dismisura, nel profluvio di beni della società del consumo, tendiamo a vederci costretti in un viaggio di sola andata verso materialismo e superficialità, come se le relazioni con le cose andassero necessariamente a discapito delle relazioni con le persone. Non è sempre e non è solo così: l’intima relazione soggetto-oggetto deve essere considerata e valutata estrapolandola da un contesto di spreco e di iperconsumo; anzi, forse proprio grazie alla comprensione della profondità di tale relazione possiamo riuscire a dare un valore diverso alle singole cose e uscire dalla spirale del consumo ossessivo e vuoto. Scopriremo così che di norma, più vicini siamo alle cose, più vicini siamo alle persone.

I protagonisti di questo testo sono giovani e vecchi, donne e uomini, persone sole e persone con famiglie numerosissime; le loro case raccontano storie comuni e storie fuori dall’ordinario, storie di sofferenza e di gioia, storie di abbandono, di dipendenza dalla droga, di rapporti difficili con i genitori o con i figli, di matrimoni equiparati a torture cinesi e di cani amati e accuditi più della propria moglie. Ciascuno di loro si vede dedicare dall’autore non più di poche pagine, quanto basta al lettore per cogliere nel vasto campionario l’essenza profonda che transita costantemente tra la carne e la materia, tra la persona e le cose che le appartengono.

Vale la pena spendere due parole sull’autore, che con questo testo a carattere fortemente divulgativo si propone non solo di avvicinare un maggior numero di lettori al mondo dell’antropologia e in particolare agli studi sulla cultura materiale, ma anche di portare avanti la tesi che lo ha reso celebre nel mondo scientifico. Daniel Miller è considerato il fondatore dell’antropologia del consumo; il fulcro centrale della sua ricerca è l’analisi di come gli oggetti materiali, attraverso il loro utilizzo, permettano la costruzione delle identità personali e dei legami sociali nel mondo contemporaneo. Dopo numerose esperienze sul campo in diverse parti del mondo (da Trinidad alla Giamaica, dalla Cina, alla Turchia, all’India) concentrate sull’analisi di tematiche legate al consumo di massa, Miller è giunto alla conclusione che gli studi sul consumo sono stati pesantemente influenzati da un approccio materialistico, che, unendo critica al capitalismo e coscienza ecologista ha finito con l’identificare il consumo di massa esclusivamente come un processo di omologazione e standardizzazione, una pratica sempre negativa, sempre eccessiva, sempre superflua. Per Miller il consumo è un sistema molto più complesso, nel quale i beni non sono solo il risultato di necessità imposte (o primarie), ma sono anche la manifestazione del desiderio di costruire legami sociali e di prendersi cura delle persone che si amano (Meloni, 2018).

Inutile dire che, per quanto affascinante, una visione così rosea della società del consumo ha attirato non poche critiche. Studiosi come Ritzer, Latouche o Lipovetsky ci parlano del consumo moderno come di un fenomeno assai preoccupante, che ingloba gran parte della nostra vita e comprende aspetti coercitivi, di controllo, di riduzione della libertà, di alienazione. Siamo nell’ambito della critica al consumismo e alle sue nefaste conseguenze, da quelle più tragiche e manifeste (divario sempre crescente tra grandi ricchi e poveri assoluti, progressivo esaurimento delle risorse del pianeta, diffusione a macchia d’olio di allevamenti lager…) a quelle più sottili e maggiormente dibattute  (creazione continua di bisogni fittizi, persuasione occulta, identificazione della felicità e della realizzazione personale con il possesso, disumanizzazione del consumatore). Per una panoramica su queste posizioni e sui loro molteplici risvolti inserisco a fine articolo una piccola bibliografia, limitandomi qui a un rapido accenno ad alcune affermazioni di Graeber. Secondo quest’ultimo, la colpa di molti antropologi che si occupano di modernità e di consumo (il rimando a Miller è evidente) è quella di contribuire, anche se in modo indiretto, al mantenimento dell’ideologia del capitalismo globale. In breve: da una posizione privilegiata, quale è quella di tutti coloro che vivono nella società del benessere, negano la vicinanza e il sostegno intellettuale (che dovrebbe essere insito nella disciplina stessa) a quelle fette di popolazione che dal sistema consumistico sono pesantemente oppresse. Cito a questo proposito alcune parole di Warnier, che completano e rafforzano la critica mossa da Graeber:

[…] Ora, la sociologia e l’antropologia mi sembrano aver sempre avuto una vocazione critica. Dire che i nostri sistemi di consumo obbligano l’1% della popolazione a quella particolare modalità di soggettivazione che è la strada (essere ridotti “sul lastrico”) e che privano dal 10 al 15% della stessa popolazione del biglietto d’ingresso al mondo del consumo rappresentato dalla busta paga, è dire qualcosa di grave.

Le due posizioni messe in evidenza nel corso della trattazione non sono chiaramente del tutto inconciliabili, o meglio, non lo sono nell’ambito di una disciplina che ha l’ambizione (ma non la pretesa) di abbracciare l’intero panorama della varietà umana organizzata in società e dotata di specifiche visioni del mondo. Al di là delle diverse opinioni degli studiosi sulla direzione in cui dovrebbe dirigersi lo sguardo e l’interesse dell’antropologo, è davvero difficile non apprezzare la freschezza e l’originalità di questo testo di Miller, che con grande semplicità e invidiabile chiarezza espositiva ci conduce a una maggiore consapevolezza del tipo di rapporto che instauriamo con gli oggetti della nostra vita, i quali, ci piaccia o no, sono ormai parte integrante della costruzione del sè. E c’è dell’altro. Confermando un’attenzione particolare nell’impegno a non lasciare nulla di non detto, Miller ci consegna nell’epilogo una brillante spiegazione del perchè, trascendendo contesti temporali e dinamiche sociali specifiche, uomini di ogni tempo, luogo e cultura abbiano instaurato e continuino a instaurare rapporti così profondamente radicati nell’esperienza con oggetti inanimati, rendendoci più che mai evidente come il valore economico e di prestigio di una cosa sia quanto di più lontano si possa utilizzare per definire il suo vero valore.

Bibliografia

RITZER G.
Il mondo alla McDonald’s, il Mulino, Bologna, 1997.
La religione dei consumi. Cattedrali, pellegrinaggi e riti dell’iperconsumismo, il Mulino, Bologna, 2012.

LATOUCHE S.
L’occidentalizzazione del mondo, Bollati Boringhieri, Torino, 1992 .
Usa e getta, Bollati Boringhieri, Torino, 2013.

LIPOVETSKY G.
Una felicità paradossale. Sulla società dell’iperconsumo, Raffaello Cortina, 2007.
L’estetizzazione del mondo, Sellerio Editore, 2017.
Piacere e colpire. La società della seduzione, Raffaello Cortina, 2019.

di Erica Gariboldi

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