Francesco Boer, Favole della Grande Guerra
Storie bizzarre, quasi incredibili – ma d’altronde non è incredibile anche l’eroica tragedia di quell’immane guerra?(dall’Introduzione, p.9)
Molti fra quelli che tornarono dalla guerra dissero di aver visto l’inferno; ma io ho guardato il diavolo negli occhi, e non lo intendo in senso figurato! (Sig. Virgilio Dal Pra di Belluno – registrazione del 16 aprile 1971, p.54)
Chi si era salvato da Caporetto raccontava che quella non fu una battaglia, ma una vera e propria apocalisse artificiale. Le porte dell’aldilà vennero spalancate, e quell’orda infernale calò sulle nostre terre, saccheggiandole come fanno le cavallette sui campi di grano. (p.73)
Tutte le persone, gli avvenimenti e i racconti di seguito riportati sono di pura fantasia e di invenzione dell’autore. Eventuali omonimie, somiglianze o coincidenze sono da ritenersi non volute e puramente fortuite. Già dall’avvertenza di queste Favole della Grande Guerra, corredate da ventisei bellissimi manifesti propagandistici e appelli al popolo, si capisce che le storie avvincenti raccontate dall’autore e la storia ufficiale, quella che si impara acriticamente sui libri di scuola, vivono in un rapporto speciale. C’è una dialettica quasi sempre sottostimata tra la storia dei libri e quella popolare, tra la Storia con la maiuscola e il mito che nasce e fermenta attraverso i racconti di chi ha vissuto in prima persona le barbarie della guerra, rielaborati e splendidamente deformati dal filtro della memoria. Queste narrazioni portano a una crisi dei capisaldi su cui si fonda la nostra coscienza storica.
Come ricorda la postfazione di Giulio Falsetti, le favole di questa raccolta provengono da interviste ai reduci della Prima guerra mondiale, registrate durante gli anni Settanta, quindi più di cinquanta anni dopo la fine del conflitto, sotto il coordinamento del Centro Studi Novecento di Trento e con la collaborazione di alcune università italiane.
Boer gioca sapientemente con questa ambiguità dell’esperienza e attraverso una storia che si alimenta anche di racconti orali ci narra di eventi certamente non storici ma altrettanto interessanti, nella misura in cui fanno capire al lettore quanto la guerra, sia vissuta che immaginata, plasmò l’immaginario di coloro che la vissero. Attraverso la memoria, i testimoni creano delle storie affascinanti e parallele in cui all’esperienza della guerra si affianca la fascinazione per ciò che i soldati non riuscivano a comprendere. Lì subentra e si insidia il magico, in quel vuoto di senso provocato dall’inspiegabile o dall’ignoto dove il testimone incomincia a inventare.
Boer esplora il sottosuolo delle mitologie personali e popolari. È reale anche ciò che viene pensato e poi condiviso sotto forma di favola da una generazione che diede una nuova vita alla dimensione mitica del raccontare. I nemici austriaci e tedeschi, quasi una metonimia dell’alterità, sono rappresentati il più delle volte come propaggini infernali e diaboliche. Così Alfio Zanetta di Mortara, il primo testimone della raccolta, descrive i nemici:
Gli austriaci sono tutti barbari, gente incolta che non conosce la civiltà; ma si diceva che loro fossero autentici demoni, soldati talmente selvatici da aver perso ogni traccia d’umanità. Alcuni sostenevano che non avessero nemmeno un’uniforme, e che a suon di vivere in montagna gli fosse cresciuta una pelliccia, simile a quella degli orsi (p.15).
Per Lorenzo Soggiu di Dolianova, «chissà come, gli ungheresi riuscirono a portare nelle loro trincee una strega. Che il diavolo se li porti…» (p.23). Il dolore dell’esperienza bellica sembra identificarsi con il male e con il Diavolo. Il nemico sarà aiutato dalle creature più strane: «fu lì che vidi quei mostri schifosi: draghi» (p.49) è quello che afferma Vincenzo Maria di Bella di Milano, mentre Casimiro Lorenzi di Pisa racconta di «nani, o forse gnomi, chissà Dio» (p.61) che popolano le gallerie sotterranee. All’opposto, per Giuseppe Buccini di Avezzano, l’esercito italiano fu aiutato da Cristoforo Ciamacco, un soldato alto due metri e cinquantaquattro che sa piegare un cannone con le sue mani. Per Ernesto Serafìn di Avasinis, i soldati del reggimento n.2 degli Ulàni «volavano nel cielo stando a cavalcioni dei loro fucili, e brandivano sciabole e mazze ferrate agitandole nel cielo» (p.52). Michele Faggiano di Avellino scorgeva tra le fila nemiche i «celebri ussari alati» (p.67). Giovanni Battista Marangon di Cadoneghe, servendosi del pretesto di uno strano sogno delirante per raccontare la sua storia incredibile, spiega che quando era allettato all’ospedale militare «nascosto fra le pieghe c’era un’abominevole figura umanoide fatta di filo spinato intrecciato» (p.86), poi esorcizzata dal prete e dagli Ave Maria del soldato inorridito che sconfitto il malefico omino magicamente guarisce.
Anche i feticci, oggetti sovraccaricati da un senso sempre trascendentale, sono frequenti tra i racconti mistificati dei reduci: una tibia umana di una compagnia di soldati uccisi che tornano dall’aldilà sul campo di battaglia, un amuleto trovato tra le macerie che porta fortuna al soldato finché dopo la guerra non viene chiesto indietro da un uomo misterioso.
Perfino la natura è soggetta a questa magia, come le stelle alpine non più bianche ma rosse per il sangue versato sul terreno dai caduti, o l’acqua del mare anch’essa rossa come fosse sangue, un albero apparentemente cresciuto in una notte e scambiato dai soldati per uno spettro immune ai proiettili, o ancora fuochi fatui azzurrognoli per i caduti italiani e «di un colore rosso pallido, quasi rosa» per i nemici.
I protagonisti di queste storie cercano a volte di giustificarsi per l’inverosimiglianza delle loro avventure e perciò, ingannandosi e cercando nell’ascoltatore-lettore un complice fedele, riescono ad aprirsi naturalmente senza il timore di sembrare dei cantastorie. Ai lettori moderni, però, queste testimonianze piacciono e affascinano proprio perché sono raccontate da soldati che attraverso la loro memoria e la loro fantasia diventano dei veri e propri, meravigliosi, cantastorie.
F.Boer, Favole della Grande Guerra, Kappa Vu Edizioni, Udine 2016.
Per l’immagine: Luciano Ramo, manifesto anti-tedesco italiano, 1916 – Library of Congress