Francesca Belfiore
pubblicato 4 anni fa in L'angolo russo

“Fuga da Bisanzio”, Iosif Brodskij

“Fuga da Bisanzio”, Iosif Brodskij

Un poeta, per definizione, non ha vita facile. Un poeta che ha fatto dell’arte di “disinserirsi” la ragione della sua esistenza ha una vita pressoché impossibile, specialmente se quel poeta è nato in Unione Sovietica durante il regime di Stalin.

Fuga da Bisanzio (Less Than One: Selected Essays, tradotto per Adelphi da Gilberto Forti nel 1987) è il ricordo dell’infanzia pietroburghese di Iosif Brodskij, vissuta con i genitori in «una stanza e mezzo» sul Litejnyj Prospekt, il racconto di una giovinezza esuberante e disobbediente, della scoperta della poesia attraverso le voci di Mandel’štam e Auden, sullo sfondo di una San Pietroburgo bellissima, sfuggente e folle, proprio come nei romanzi di Dostoevskij. 

Conosciuto principalmente per la sua attività poetica, Brodskij sa creare una prosa altrettanto evocativa, soprattutto se si pensa che questi saggi non sono stati scritti in russo. Fuga da Bisanzio, infatti, nasce in inglese. Brodskij sceglie la lingua adottiva anziché quella nativa perché il russo è la lingua del paese che l’ha costretto a emigrare, di quel paese che ha impedito ai suoi genitori di dire addio al loro unico figlio prima di morire, quindi «scrivere di loro in russo significherebbe soltanto ribadire la loro cattività». Inoltre, come suggerisce anche lo scrittore J. M. Coetzee in un articolo, per Brodskij l’inglese è un omaggio al poeta W. H. Auden, suo mito personale e ancora di salvezza nel periodo più buio.

Nonostante, dunque, conosca benissimo l’inglese – professore alla Columbia University, dal 1977 diventa cittadino americano – la lingua della poesia rimane il russo, una «lingua stupendamente flessibile, capace di esprimere le più sottili sfumature della psiche umana», tant’è che il poeta accusa chi parla lingue diverse dal russo di una certa letargia della psiche. Definire Fuga da Bisanzio una semplice autobiografia, però, sarebbe un errore.

I sette saggi compresi nella raccolta partono sicuramente dall’esperienza personale di Brodskij, ma non si limitano a raccontarla: offrono invece molti spunti di riflessione sulla poesia, sulla memoria, sul viaggio e sulla Storia, per dirne soltanto alcuni. Dall’altro lato, è proprio l’elemento autobiografico a rendere questa raccolta così viva, allontanandola dalla pura e semplice saggistica, e l’autore ne è ben consapevole:

Nello scrivere queste note mi accorgo che la prima persona singolare drizza la sua odiosa testa con preoccupante frequenza. 

L’influenza che la poesia di Auden ha avuto su Brodskij, ad esempio, non rimane sul semplice piano teorico. I due, infatti, hanno avuto modo di conoscersi e diventare amici, nonostante la profonda soggezione di Brodskij nei confronti del poeta inglese. Auden ha accolto Brodskij a Vienna nel 1972, l’anno del suo esilio, e lo ha aiutato a trovare il suo primo impiego da professore negli Stati Uniti.

Non solo: le lunghe conversazioni tra i due poeti sono state fondamentali nel plasmare la giovane voce poetica di Brodskij. In Per compiacere un’ombra, Auden passa dall’essere un mito, impersonale e lontano, al diventare Wystan, suo amico e traduttore, e l’unico uomo degno di utilizzare l’Oxford English Dictionary come seduta.

Allo stesso modo, il racconto della quotidianitàdella famiglia Brodskij in una kommunal’ka, oltre a essere uno dei ritratti più ricchi di particolari della vita in un tipico appartamento sovietico in coabitazione, trattaanche la tragedia personale di una famiglia separataper sempre. Le pagine di Una stanza e mezzo, dedicate alla memoria dei genitori, sono tra le più belle di tutta la raccolta: Aleksandr Brodskij e Marija Vol’pert ritornano in vita grazie alle parole del figlio, anche se sono parole in una lingua che non avrebbero capito.

Il ricordo è denso di nostalgia per quel nido a prima vista così inospitale – senza pareti divisorie, in cui si doveva condividere il bagno e la cucina con perfetti sconosciuti – ma che, a posteriori, rappresenta uno dei periodi più felici per il poeta: 

C’è però qualcosa di cui non può incolpare la natura, ed è la scoperta che ciò che ha ottenuto, la realtà che si è costruito, è meno solida della realtà del nido abbandonato: se mai c’è stato qualcosa di reale nella sua vita, era proprio quel nido, oppressivo e soffocante, dal quale aveva tanta voglia di andarsene. Perché erano stati altri a costruirlo, quelli che gli hanno dato la vita, e non lui, che conosce fin troppo bene il valore vero del proprio affannarsi; lui che, in un certo senso, si limita a usare la vita ricevuta.

Infine, dopo due grandi poeti, Brodskij ci parladi due grandi città. La prima dà il titolo alla traduzione italiana della raccolta. Fuga da Bisanzio intreccia il resoconto del viaggio a Istanbul con la sua riflessione sulla Storia, in particolare su quella della “Seconda Roma” e dell’imperatore Costantino. Dalla sua stanza d’albergo e dai locali polverosi dell’antica Bisanzio, Brodskij ragiona sulla nascita e la caduta di un Impero, sulle conseguenze che ha avuto sulla Terza Roma (Mosca) e, per estensione, su di lui, in quanto russo.

La seconda è la sua città natale, San Pietroburgo. In Guida a una città che ha cambiato nome se ne ripercorre la storia, delineando un parallelismo tra i due uomini che più l’hanno influenzata: Pietro il Grande – il celebre Cavaliere di Bronzo – e Lenin, a cui è dedicato «l’unico monumento al mondo che raffiguri un uomo su un autoblindo».

Ma la presenza più imponente di tutte è quella della letteratura, che ha plasmato la città a sua immagine e somiglianza, e ha generato una moltitudine di scrittori e poeti senza precedenti, di cui Brodskij fa orgogliosamente parte. Si crea una sovrapposizione tra la città, «misconosciuta e respinta», e il poeta, che diventa un reietto a causa del suo comportamento poco conforme alla maggioranza. Viene quindi spontaneo pensare che Brodskij non sarebbe potuto nascere in un posto migliore. 

C’era una volta un ragazzino. Viveva nel Paese più ingiusto del mondo. Che era governato da individui i quali da ogni punto di vista umano dovevano essere considerati dei degenerati. Il che non avveniva mai.

E c’era una città. La più bella città sulla faccia della Terra. Con un immenso fiume grigio il quale era sospeso sopra il suo alveo remoto come l’immenso cielo grigio sopra quel fiume. Lungo quel fiume sorgevano magnifici palazzi con facciate stupende, così ben rifinite che se il ragazzino stava sulla riva destra, la riva sinistra somigliava all’impronta di un gigantesco mollusco chiamato civiltà. Che aveva cessato di esistere. 

di Francesca Belfiore