Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Primulètte

gran vía: I levrieri, i levrieri di Sara Gallardo

gran vía: I levrieri, i levrieri di Sara Gallardo

Le primulètte sono le prime letture dei libri che leggeremo, quelli che non ci vogliamo dimenticare. E per questo vogliamo seminarli prima che fioriscano tra gli scaffali delle librerie. Ecco la primulètta numero dodici, I levrieri, i levrieri di Sara Gallardo (traduzione di Sara Papini, gran vía).


La casa di Lisa aveva finestre su tutti i lati e, nelle sere d’estate, l’aria la percorreva da una parte all’altra. In quella casa, nelle sue dolci correnti d’aria e nell’odore di acquaragia, sono stato felice.

Una volta, all’alba, andai a trovarla perché avevo commesso un errore, abitudine che con diverse varianti non ho mai perso. Avevo accettato un’uscita con degli amici di scuola. Non avevo previsto la noia, la lunghezza delle ore, il disinteresse. Ormai tardi, fermo a un angolo, la faccia incartapecorita per via di tutte quelle risate faticose, compresi che l’unica consolazione per la notte persa era andare da Lisa.

Salii al suo appartamento, attraversai il salone vuoto eccetto che per due cavalletti, entrai nella camera da letto anch’essa quasi vuota e la vidi addormentata nello splendore della notte: la finestra era aperta e il cielo estivo si levava sopra di lei. Capii che si era addormentata sorpresa dal sonno: non avrebbe avuto il coraggio di farlo sotto le stelle per scelta.

Respirava persa nelle sue cose, e con la sua presenza il mio fastidio cominciava a dissolversi. Non mi udì nemmeno entrare. A quell’ora sarebbe capace di dormire tra gli artigli di un drago. La osservai a lungo. Mi accesi una sigaretta. Mi affacciai alla finestra con i gomiti appoggiati al davanzale.

Nel quartiere di San Telmo, devo dirlo anche se suonerà ridicolo, all’ora del crepuscolo il cielo è di un blu violetto che di notte si va schiarendo. Faccio male a dire San Telmo, anche casa mia era in quel quartiere, ma, forse perché la finestra dava su un altro lato, avevo scoperto quell’aspetto soltanto a casa di Lisa. E a volte anche nel parco Lezama.

Fumando quindi mentre lei dorme, osservo, nero pece contro il cielo, il serbatoio d’acqua dell’antica casa accanto, con la sua scaletta d’inchiostro di china, osservo in lontananza l’edificio di fronte con la facciata rosata chissà per via di quale riflesso, osservo la casa che sorregge il serbatoio d’acqua. Non l’ho mai vista così nera. Non riesco a distinguere le porte, nemmeno il ballatoio arrugginito lungo cui nel pomeriggio alcune bambine corrono e salgono a giocare in terrazza, e lungo cui ogni giorno avanza lentamente una vecchietta quasi calva dalla sua porta con gli angeli ricamati sulle tende fino al bagno dal tristissimo water. Non distinguo nulla, ma nella densità nera scorgo d’un tratto un fiore portentoso. È la fiamma azzurra del gas della cucina. Qualche insonne si prepara un mate. Quella fiamma azzurra mi strappa il cuore.

Nelle notti d’inverno, quando c’è vento, i cavi dondolano e la luce di qualche lampione vela e disvela le vecchie facciate. Oggi è estate e tutto è tranquillo. Julián fuma, Lisa dorme, con la spessa chioma intrecciata per una maggiore frescura e il lenzuolo sopra quel corpo che tanto la fa arrabbiare. La fa arrabbiare perché non è alta e slanciata, e secondo lei «tutto le si sta sciogliendo». Si consola dicendo che il formaggio quando si scioglie è più buono (poiché l’eleganza delle frasi non è mai stata il suo forte), a volte immagina che cosa sarebbe stato di lei se le fosse toccato possedere ciò che chiama una grande bellezza. In quei casi compaiono sempre viaggi in transatlantico e in aereo con asfissianti cappotti di pelliccia, e compaio anch’io, mi spiace dirlo, sotto forma di un pover’uomo ebbro d’ammirazione, a cui lei per piacere e forse per condiscendenza concede di tanto in tanto i suoi favori. Con i miei insulti più beceri le assicuro che ne farei volentieri a meno. Ma non mi crede. Sono incapace di immaginare, pare, il livello di tale bellezza.

Ora il mio fastidio si è dissipato. Come reciterebbe un tango, si è consumato allo stesso modo, o allo stesso tempo, della sigaretta che ho fumato affacciato alla finestra, il cui mozzicone cade con uno schiocco delle dita verso il basso, nel giardino di un’altra vecchietta che ha l’abitudine di usare una crocchia marrone sulla nuca grigia. Dicono che la cenere sia concime per le piante. Spero che sia davvero così per l’oleandro della vecchietta, penso mentre mi spoglio. Sotto il lenzuolo c’è l’odore di Lisa, più dolciastro in estate, sempre buono per me. Non si spaventa e nemmeno si sveglia durante un lungo attimo d’amore, e quando apre gli occhi l’amore continua, in questo modo e nell’altro, e nell’altro ancora. Poi sta già sorgendo il sole, si vedono le case, la meravigliosa fiamma azzurra è scomparsa. Lisa ride. «Ubriacone» dice. Mi distendo accanto a lei e fumo. Chiacchieriamo.

Anche se sbadiglia senza sosta, approva la mia invasione. «Abbiamo guadagnato un giorno» mormora. Conta sempre i punti rubati a un’eternità che per qualche motivo considera nemica.

«‘Abbiamo guadagnato un giorno’. Zingara da feuilleton. Ti sei addormentata con tutte le stelle addosso».

«È vero» sorride. E forse per cambiare argomento: «Sei stato bene con i tuoi amici?»

«Male» dico contrito, nascondendo il viso sulla sua spalla. «Sto sempre male quando non sono qui».

«E perché non stai sempre qui?»

«Per l’odore di acquaragia».

Sorride. Si alza a preparare il caffè. Io guardo dalla finestra.

La luce innocente dell’alba ha fatto sorgere di nuovo la casa antica, il serbatoio d’acqua e la scala, il ballatoio arrugginito, perfino la vecchietta mattiniera che annaffia i gerani accanto alla porta con gli angeli ricamati sulle tende. I passeri sono contenti. Cinguettano. Saltano dai cavi alle canne di un camino e lì si infilano, fanno capolino e avvisano. Il cielo è leggero. Il quartiere anche.

Bevendo caffè, ricominciamo a parlare. E compare di nuovo, come sempre, come ogni volta che conversiamo, un tema che ci fa pregare in preda al terrore. La possibilità di lasciarci.

Abbiamo trent’anni e sappiamo diverse cose. Che l’amore dei giovani si stanca, spesso vulnerabile. Che vale di più esserci incontrati quando ci siamo incontrati. Che lasciarci è impossibile per via di questo, di quello e di quell’altro, delle parole che inutilmente cercano di spiegare l’amore. Che è impossibile, diciamolo meglio, a causa dell’amore in persona.

Per un attimo questo ruolo dell’amore zittisce ogni cosa. Sono anni che stiamo insieme. Alcuni significa molti, molti significa tutti.

Poi, come sempre quando parliamo, torna il ricordo della fede, della speranza e dell’amore persi altre volte. Erano fede, speranza e amore veri. Risultarono persi, evanescenti.

Allo stesso modo sappiamo che il male capace di buttare all’aria gli amori non è un male che si aggira fuori: si annida dentro di noi. E ricordiamo che quando si mette in marcia e ci costringe a seguirlo, lo seguiamo come se fosse un bene. Così, come sempre, giungiamo alla conclusione che né la preghiera, né il controllo, né il timore impediscono a quel male di crescere, se deve crescere.

Ci guardiamo. Io vedo i suoi occhi trasparenti, attenti ai miei, spaventati. Lei vede i miei occhi spaventati.

Poi arriva la pace. L’amore quando c’è è come l’acqua che fuoriesce imbrogliandosi nella bocca della sorgente, e non può pensare tutto il giorno se arriverà o no al mare. Le dico che il caffè è terribile. Mi manda al diavolo. Si fa una doccia fredda per svegliarsi del tutto. Ride pensando al suo sogno ispirato. Cerca una cartella. Va alle lezioni di disegno. Io dormo nel suo letto fino all’ora di correre allo studio.