Anita Orfini
pubblicato 5 anni fa in L'angolo russo

¡Hasta la revolución! … ¿siempre?

"La scheggia" di V. Zazubrin.

¡Hasta la revolución! … ¿siempre?

La rivoluzione è una fabbrica meccanizzata. Ogni macchina, ogni vite, ha la sua funzione.

Ma lo capisci pezzo di merda, che io ho dato il sangue per la Rivoluzione, che Le ho dato tutto, e ora sono un limone spremuto.

La scheggia (Ščepka, tradotto per Adelphi da Serena Vitale nel 1990) di Vladimir Zazubrin ha subito il beffardo destino di molte – troppe – altre opere. Scritto nel 1923, ha visto la luce solo nel 1989, dopo più di sessant’anni di quarantena, quando il virus della censura era stato in qualche modo debellato. Ritrovato negli archivi della Leninka, è stato poi pubblicato sulle riviste Enisej e Sibirskie ogni. Quest’ultima, ironia della sorte, è la stessa che aveva rifiutato di dare alla stampa la povest’ anni prima. Nonostante Zazubrin avesse riscontrato il favore di Lenin nel 1920 con il romanzo Dva mira (Due mondi), La scheggia è un testo di tutt’altro respiro. Scritto da un rivoluzionario della prima ora e fervente bolscevico come era stato Zazubrin (aveva partecipato ai moti del 1905 e poi proseguito il suo cammino rivoluzionario negli anni a venire), il racconto narra l’ascesa e la successiva caduta del čekista Andrej Srubov, fornendoci un vivido e sanguinario affresco del terrore rosso.

Andrej Srubov è un predgubčeka (sigla di Predsedatel’ Gubernskoj Čeka), ovvero il Presidente della Čeka (Črezvyčajnaja Komissija), la Commissione Straordinaria per la lotta alla controrivoluzione e il sabotaggio Provinciale. La sua vita si incrocia con quella dei lettori un mattino in cui sta svolgendo il suo solito lavoro: fucilare i nemici della rivoluzione.

I condannati si spogliavano con mani tremanti. Le dita infreddolite non obbedivano, non si piegavano. Occhielli e bottoni non cedevano. Lacci e cordicelle non si scioglievano. Il comandante, mordicchiando il bocchino di cartone di una papirosa, li sollecitava: «Più svelti, più svelti». A uno la testa era rimasta impigliata nella camicia, e lui non si affrettava a liberarla. Nessuno voleva spogliarsi per primo.

I prigionieri crollano come un unico corpo sul freddo e indifferente pavimento del sotterraneo. Non ci sono panche sotto le quali rifugiarsi nell’estremo seppur vano tentativo di scampare la morte. Non c’è dove nascondersi, non si può fuggire. Di vie d’uscita non ce ne sono. E i topi già si accalcano per leccare il sangue dei cadaveri subito portati via per far spazio alla cinquina successiva.

«Non urlare. Non avremo pietà».

Assuefatto dalla costante e quotidiana violenza da egli stesso perpetuata e che gli sfila davanti in uno spettacolo senza fine, Srubov è un ramo secco, il cuore è ormai perso, indurito com’è dalla rabbia furiosa che gli fa ribollire il sangue ogni volta che uno degli arrestati affida la sua fine a un disperato appello a Dio. Come quel pope che si ritrova sotto i suoi occhi spietati. Si trascina verso il muro, stenta ad avanzare sulle corte gambe appesantite dal grasso corpo, cantilena con voce tremante. Srubov neanche lo vede.

Aveva gli occhi fuori dalle orbite. A Srubov tornò alla mente quando sua madre faceva i biscotti a forma di allodola, al posto degli occhi metteva acini di uva passa. La testa del pope assomigliava a quella di un’allodola tirata fuori dal forno, con gli occhi di uvetta gonfiata dal calore. Padre Vasilij cadde in ginocchio. «Fratelli miei, fratelli cari, non uccidetemi…». Ma per Srubov lui non è più un uomo – è già un biscotto, un’allodola di pasta dolce.

Succede poi che le urla e la resistenza dei condannati scateni la collera dei čekisti: alzano i revolver e con l’impugnatura colpiscono le nuche dei prigionieri nudi davanti a loro. Deve essere però un colpo secco. Non si può sbagliare e ferirli soltanto. Bisogna ucciderli. Se non li si colpisce mortalmente subito, uno dei superiori intima di finire il lavoro e poi si deve necessariamente fare i conti con la propria coscienza lì, nel sotterraneo. C’è quindi chi comincia a bere. Stordirsi per non pensare, stordirsi per non vedere cosa Lei ti ha spinto a fare, non renderti conto di cosa sei diventato.

Solo uno di loro, Efim Solomin, non aveva problemi. Per lui far fuori le Guardie Bianche era condizione necessaria e indispensabile quanto ammazzare le bestie come faceva prima del suo incarico alla Čeka. Così come per gli animali, non prova rabbia né pietà per i condannati. Sa bene che sono nemici di Lei e come tali devono essere trattati.

Mortalmente pallidi, esseri umani nudi strisciano nello strazio dell’incubo, si accasciano e lasciano il posto ad altri corpi.

Per Lei, e in nome dei Suoi interessi, Srubov è pronto a tutto. Per Lei anche uccidere è una gioia. E se sarà necessario, non esiterà a piantare lui stesso le pallottole nelle nuche dei condannati. Che un solo čekista provi a fare il vigliacco, a tremare – lo accopperà subito, lì stesso. Srubov è pieno di una gioiosa determinazione. Per Lei, in Suo nome.

La disumanizzazione delle vittime insita nella loro carneficina si spinge fino all’estremo. Gli oggetti personali dei morti vengono raccolti e dati ai bambini come fossero balocchi. Ignari del destino dei precedenti proprietari, si trovano fra le piccole mani dei manufatti sporchi di sangue:

I suoi occhi stanchi notarono soltanto che nella mano sinistra il čekista aveva un fascio di croci, immaginette, amuleti. Macchinalmente chiese: «Che te ne fai, Efim?». Quello, con un sorriso radioso: «Li porto ai bambini, per giocare, compagno Srubov. Oggigiorno di giocattoli non ce n’è nei negozi. Manco uno».

Lei è sempre lì a supervisionare i gesti dei čekisti, le loro uccisioni compiute in Suo nome fra le mura della Gubčeka, quella casa bianca che non si accorge, non sente le urla dei prigionieri trapassare le pareti, sfondare le finestre, sgretolare il tetto, sciogliere le tubature. Algida e distante alle sofferenze umane, si trasforma invece in avido segugio nello stanare le vittime:

Di notte la bianca casa di pietra a tre piani con a bandiera sul tetto, l’insegna rossa sul muro, le stelle rosse sui berretti di pelo delle sentinelle, guatava la città con i lucidi e affamati occhi rettangolari delle finestre, digrignava i denti del portone, una massiccia grata di ghisa coperta di brina, agguantava bracciate di arrestati, li masticava, li inghiottiva nelle gole di pietra dei sotterranei, li digeriva nel suo ventre di pietra, e poi li sputava, li scatarrava, li rigettava sulla strada in forma di muco, saliva, sudore, escrementi.

Tuttavia, c’è anche qualcuno di loro che comincia timidamente a ribellarsi a quella carrellata di violenza e non trova altro conforto che nell’alcol. Succede così per Van’ka:

«Mettetemi al muro, fate quello che volete – io non ci riesco. Ho fatto fuori un migliaio di persone, e niente, non bevevo. È da quando ho sparato a mio fratello che ho cominciato a bere. Me lo vedo sempre davanti agli occhi. Io che gli faccio: vai al muro, Andrjuša mio, e lui mi fa: “Van’ša, fratello mio”, e si mette in ginocchio… Eh… Lo vedo ogni notte».

Srubov finora, al contrario, non prova nessuna pietà, nessuna compassione. La smania di premere il grilletto su quelli che davanti a lui non sono più esseri umani ma pidocchi è per il čekista una necessità, così come per il contadino è il lavorare la terra.

A Srubov comincia a ronzare in testa una parola: “assenizator”, vuotacessi. Ed è così che si sente, il vuotacessi della rivoluzione. Lentamente il suo slancio rivoluzionario inizia a vacillare, oscure intermittenze attentano un cortocircuito nel suo animo čekista e, proprio come una Lady Macbeth che continua a lavarsi le mani, anche lui comincia a scivolare nel suo personale viaggio verso la più cieca follia ma non c’è sapone in grado di pulire le nere macchie della sua coscienza.

Una viscida sporcizia gli irritava il corpo. Un brivido gli contrasse le spalle. Sbottonò il colletto della giubba. La biancheria intima era pulitissima. L’aveva indossata solo ieri, dopo il bagno. Tutto era pulito, lui stesso era pulito. Ma quella sensazione di sporcizia non lo abbandonava. 

A far riaffiorare un sopito senso di colpa concorre una lettera del padre che cerca di farlo riflettere sul dolore che sta causando, sui milioni di morti che sta accatastando nell’utopica costruzione di un avvenire di pace le cui fondamenta poggiano sui cadaveri da lui stesso condannati:

Immagina di costruire te stesso l’edificio del destino umano al fine di rendere felici gli uomini, di dargli pace e tranquillità, ma che per questo sia indispensabile torturare a morte una sola minuscola creatura […] Acconsentiresti ad esserne l’architetto? Io, tuo padre, rispondo: no, mai […] L’umanità futura rifiuterà questa «felicità» costruita sul sangue umano….

La Čeka sgretola i rapporti umani, pietrifica i sentimenti. Alla minaccia della moglie Valentina di andare via con il figlio, Srubov riesce solo a domandarsi perché ha scelto lei come compagna di vita. Con il volto incipriato dallo sgomento gli rivela la paura che lui, Srubov, le incute, con quella sua maschera di legnosa indifferenza e il suo muso da estraneo. Non ha più intenzione di vivere con un carnefice. Quello stesso carnefice però ha molto da dire sul guidizio degli altri nei confronti dei čekisti. Secondo il predgubčeka, nessuno di loro è contrario alle perquisizioni, agli arresti, alle fucilazioni. Nessuno, in teoria, è contro il terrore. Tutti riconoscono che sia necessario e tuttavia condannano chi lo mette in atto, chi in quel nerume si sporca le mani.

Oh, voi non amate la nera manovalanza. Voi amate la pulizia in tutto e dappertutto, compreso i cessi. Ma dal vuotacessi che li pulisce vi ritraete con disgusto. Vi piace la bistecca al sangue. Ma “macellaio” per voi è un’ingiuria. Tutti voi, dal reazionario più nero al socialista, giustificate la pena di morte. Ma dal boia state alla larga, ve lo raffigurate come un bestiale Maljuta. Del carnefice parlate sempre con ribrezzo. Ma io, canaglie, vi dico che noi carnefici abbiamo il diritto di essere rispettati.

La trasformazione di Srubov però continua. Nello specchio di fronte al suo letto vede riflesso il volto del suo doppio che lo guarda con enormi occhi spaventati. Ora, prima di tornare a casa ogni sera, ha imposto alla madre di accendere la luce in tutte le stanze perché ha una improvvisa paura del buio.

Alla notizia della fucilazione del padre per mano del suo compagno di gioventù Isaak Katz, cerca di convincersi dell’indispensabilità di quella morte:

Ma i suoi occhi erano attratti dalla mano che con le corte dita rosse stringeva il bicchiere pieno di liquido marrone, la mano che aveva firmato la condanna di suo padre.

Nonostante tutto, Srubov continua il suo lavoro, porta avanti gli interrogatori, attento e indifferente. Anche se siede in poltrona, è elevato a un’altezza immensa, non distingue assolutamente i volti, le silhouette dei visitatori. Sono soltanto piccoli puntini neri in movimento. Le preghiere, gli appelli disperati non lo scalfiscono. Resta identico con tutti – gelido, crudele, inflessibile. Gli è facile il disinteresse. Una paura però lo attanaglia:

Tra il nome dell’ultimo condannato e la firma di Srubov c’è solo un centimetro. Un centimetro più in su – e anche lui si ritroverebbe tra i condannati. Srubov pensò addirittura che la dattilografa poteva sbagliarsi, mettere il suo nome tra quegli altri.

Poi, nello spazio di qualche mese, la vita di Srubov cambia. Viene spedito in una clinica psichiatrica e rimosso dall’incarico. Ora è lui a trovarsi dall’altra parte del tavolo, sulla sedia senza schienale, scarno, giallo. Ora è lui uno di quei tanti puntini neri che era solito guardare dall’alto del suo trono di certezze e al suo posto, a interrogarlo, c’è invece il suo amico Katz. Convivono in lui sia il carnefice che la vittima. D’altronde il suo destino sembrava già segnato: il verbo “srubit’” significa infatti “tagliare, spezzare”.

Srubov riesce però a scappare. Corre verso casa con il solo intento di uccidere il suo sosia, quel doppio – di dostoevskijana e dunque gogoliana memoria – che aveva visto nello specchio della sua camera. Prende un’accetta e lo riduce in mille pezzi. Accetta che ricorda il Raskol’nikov di Delitto e castigo, anche lui con il destino segnato nel nome: “raskol’nik” vuol dire appunto “scismatico”. La sua vita è ormai finita. Andrej Srubov, ora, non è altro che un avanzo:

Davanti a Srubov era comparsa Lei – la grande e avida amante. A Lei aveva dato i suoi anni migliori. Di più: l’intera sua vita. Gli aveva preso tutto – anima, sangue, forze. E quando era ormai un misero pezzente, l’aveva gettato via.

Srubov irrompe in un ultimo disperato grido: «Io… io… io…» che rappresenta il suo ritorno, nell’imminenza della morte, all’individualità. Lei lo osserva da lontano – lui, una delle innumerevoli pedine del suo gioco sanguinario – indifferente, spietata, inesorabile.