Chiara Masotti
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

Henri Michaux e l’avventura della pluralità dell’essere

Henri Michaux e l’avventura della pluralità dell’essere

Scrivo per esplorare me stesso. Dipingere, comporre, scrivere: percorrermi. Questa è l’avventura di essere vivo.

Henri Michaux scrive queste parole in Passages, opera pubblicata nel 1950, mostrando chiaramente l’essenza della sua poesia, frutto di un viaggio all’interno dell’essere, di un movimento costante nello spazio illimitato della propria interiorità. Per l’autore belga, nato il 24 maggio 1899, non esiste confine corporeo che possa arginare l’instabile pluralità dell’io. Il poeta concepisce la vita come una fuga perpetua alla ricerca dell’altro e dell’altrove. 

Michaux è nemico di ogni forza riduttrice e semplificatrice; in un mondo che cerca rifugio nell’unità, il poeta predilige il rifiuto di scegliere. Qui risiede la straordinaria singolarità di questo autore e della sua contraddizione, nella perenne oscillazione tra i due poli inavvicinabili della varietà e dalla singolarità dell’essere. 

Benché vicino ad alcune idee ed esperienze surrealiste – come, ad esempio, la tensione tra interiorità e monde esterno e l’interesse per l’inconscio – Michaux si colloca fuori da qualsiasi gruppo e movimento dell’epoca; la sua resistenza a ogni forma di appartenenza e di comunità lo ha portato a imporsi come figura individuale e caso unico nella letteratura del suo secolo. Questa mancanza di affiliazione non impedisce tuttavia di considerarlo parte (e forse persino caso emblematico) della Poésie entre Deux Mondes, una corrente che unisce scrittori indipendenti in conflitto con la propria arte e il proprio tempo, costantemente divisi tra la tradizione umanista e l’esasperazione moderna.

L’esitazione tra la speranza e il dubbio emerge visibilmente attraverso un linguaggio disincantato e dispersivo che, nella solitudine dei suoi frammenti, sembra invocare l’impossibilità di un equilibrio. La perdita della specificità della forma artistica diventa rappresentativa di una coscienza poetica lacerata da un’ambizione di totalità e, allo stesso tempo, della necessità di esprimersi utilizzando più codici possibili. Michaux rappresenta questa confraternita tra le varie arti accostando spesso alla scrittura la pittura, la quale, grazie al suo carattere visivo e alla diluzione dei contorni, ha il potere di accentuare il disgregamento e l’ambiguità dell’esistenza. La verità sembra legarsi, secondo l’artista, a un sentimento di incompletezza, di incomprensione tra un io pluriel e il cosmo.

L’adesione dell’autore alla pluralità sembra pertanto prevalere sia nella sostanza che nella forma della sua opera: l’estetica della diversità emerge nella scrittura e nei disegni dell’artista, dove si legge chiaramente la sua predilezione – e anche la sua reazione naturale alla società in cui vive – per l’irregolarità, l’asimmetria e il disordine. Il linguaggio è infatti specchio del mondo. Michaux si oppone alla convenzione ed esprime la sua angoscia attraverso una rinuncia all’armonia e alla costruzione logica. Il poema Clown (1939) mostra questo tentativo dell’autore di smantellare la forma tradizionale: 

Un jour.
Un jour, bientôt peut-être.

Un jour j’arracherai l’ancre qui tient mon navire loin des mers.
Avec la sorte de courage qu’il faut pour être rien et rien que rien, je lâcherai ce qui paraissait m’être
indissolublement proche.
Je le trancherai, je le renverserai, je le romprai, je le ferai dégringoler.
D’un coup dégorgeant ma misérable pudeur, mes misérables combinaisons et enchaînement « de fil en aiguille ».
Vidé de l’abcès d’être quelqu’un, je boirai à nouveau l’espace nourricier.

«Un giorno. / Un giorno, forse presto. / Un giorno strapperò via l’àncora che tiene la mia nave lontana dai mari. / Con il coraggio necessario per essere niente e niente di niente, abbandonerò ciò che sembrava essermi indissolubilmente vicino. / Lo stroncherò, lo ribalterò, lo romperò, lo farò precipitare. / Spurgando d’un colpo il mio miserabile pudore, le mie miserabili combinazioni e concatenamenti “logici”. / Svuotato dell’ascesso di essere qualcuno, tornerò a bere il nutrimento dello spazio» (traduzione mia).

L’utilizzo della punteggiatura, la creazione di neologismi, l’insistito ricorso all’anafora, alla paronomasia e all’operazione di ripetizione-variazione (che consiste nel ripetere e nell’inserire un elemento diverso per imitare l’evoluzione e la discontinuità dell’essere) danno vita a un’immagine fragile e tormentata del protagonista. Il clown, alla ricerca della sua identità, vuole rinascere, ma gli stessi contorni del suo viso e della sua figura sembrano sfuggirgli. Questa mancanza è ciò che gli permette di capire la propria natura: il nulla. Libero in questo modo di accedere all’essere, la creatura scopre il non essere, il fallimento. La metamorfosi è al tempo stesso riscatto e sconfitta e, misura della sua impotenza, non dà alcuna soddisfazione finale. Portavoce del malessere verso l’ipocrisia della perfezione, il clown non si rifugia in un immaginario fatato, ma risponde con ironia, umiltà e consapevolezza accusando ed esacerbando il reale. 

Il segreto di Michaux è proprio non nascondere nulla. La descrizione di un universo assurdo non può che avvenire attraverso l’atto liberatorio di un linguaggio sincero. Un grido di dolore non equivale all’annullamento di quest’ultimo; il poeta mette a nudo e aggrava la realtà nella speranza di trovare un minimo di conforto. Il mondo di Michaux però non è quello dell’illusione, ma dell’attesa infinita, di un vuoto che non verrà mai colmato e di una mancanza che resterà senza risposta: 

Tu t’en vas sans moi, ma vie.
Tu roules.
Et moi j’attends encore de faire un pas.
Tu portes ailleurs la bataille.
Tu me désertes ainsi.
Je ne t’ai jamais suivie.
Je ne vois pas clair dans tes offres.
Le petit peu que je veux, jamais tu ne l’apportes.

Te ne vai senza di me, vita mia… / Non riesco a capire bene ciò che mi offri. / Quel poco che desidero, mai lo concedi. / A causa di questa mancanza, aspiro a tanto, / A tante di quelle cose, quasi all’infinito… / A causa di ciò che mi manca, che mai tu concedi. 

L’assenza diventa così presenza, coscienza dell’essere, tragicità interiore. L’opera di Michaux è una rivelazione dell’individuo. L’esperienza del vuoto si riflette nella pluralità frammentaria dell’io. Al tempo stesso protezione e ossessione, questa fluidità dell’uomo non è senza dolorose conseguenze. Nessuna delle identità in cui si divide l’essere trova infatti pace e cura, né tantomeno una riconciliazione con la propria esistenza. 

La poesia di Michaux non inganna il lettore, così come lui non può essere abbagliato o illuso dal mondo esterno: l’arma con cui l’autore risponde alla crudeltà di quest’ultimo è la violenza della parola. Di fronte ad ogni fallace seduzione, egli si pone contro: 

Oh! Mondo, mondo strozzato, ventre freddo! / Nemmeno simbolo; ma nulla, io sono contro, contro (…).

Opposta alla freddezza del mondo c’è la parola, che in quanto unico vero atto di ribellione del poeta è segno di vita, «esultanza del movimento»: 

Segni, non per essere completo, non per coniugare / ma per essere fedele al proprio transitorio / Segni per ritrovare il dono delle lingue / La propria almeno, che, se non se stesso, chi la parlerà?

Michaux si lascia dunque trasportare dalla moltitudine di voci che abitano dentro di lui e lo spingono ora avanti ora indietro, in una prospettiva di fughe e di slanci senza tregua. L’intento dell’autore non è mai quello di fermarsi stabilmente, ma di trovare un punto da cui cominciare il suo viaggio: l’avventura della vita deve mantenere sempre quell’«inconnu devant soi» che apre all’orizzonte dell’essere.

Poiché, «se si fosse sicuri della destinazione, non ci sarebbe più posto per un inizio (e per il desiderio)».