Claudio Musso
pubblicato 3 settimane fa in Recensioni

“Il cliente Busken” di Jeroen Brouwers

riflessioni ad alta voce di un Montecristo al contrario

“Il cliente Busken” di Jeroen Brouwers

Ci troviamo in una residenza per anziani dove non ci sono pazienti ma «clienti», come in un ristorante o in un supermercato. La permanenza costa sessanta euro al giorno, servizio di lavanderia escluso, e prevede la convivenza con altre persone che passeggiano verso il viale del tramonto o verso un più wagneriano crepuscolo degli dèi. Tra questi clienti – termine che stigmatizza il distacco tra chi la struttura la vive e chi la gestisce – c’è E. Busken, un uomo anziano, con un viso alla Schopenhauer, sempre atteggiato a una livorosa estraneità da tutto.

Tra quelle mura infatti si sente ingiustamente recluso e proditoriamente incompreso e si impone di non parlare con nessuno e di fingersi sordo. Ne consegue una decisa battaglia contro la struttura e il personale che gli appare «genderfluido», che intanto rumina statistiche, diagnosi e chewing gum.

È vero che ho sbattuto la testa, ma la supposizione che io sia pazzo, o astrale, o addirittura fuori come un balcone, si basa su un tragicissimo abbaglio di tutti i vichinghi, voglio dire balenghi, che in questo insediamento mi importunano con relazioni e rapporti e analisi, schermi con scritte, cuscinetti per timbri, coltelli di plastica. Riterrà altresì di dovermi mostrare il da farsi per via della mia sordità, il cliente non mi capisce perché non mi sente, sebbene io percepisca tutto con precisione, compreso il vago cigolio appiccicoso del suo masticare.

Gira voce che il nostro protagonista sia un demente ma lui lascia che gli psico-qualcosa lo annaffino con il loro latino medico, con parole che inchiodino la sua identità a un prontuario e che dicano del suo nebuloso passato quello che vogliono.

Busken intanto resta vigile, vede tutto con chiarezza, benché in un singolare blu, osserva, registra e afferra ogni cosa con il pensiero, non con la mano, che gli trema e che non riesce a controllare. E parla ai lettori in un immenso rigurgito di coscienza, pagina dopo pagina, da narratore inaffidabile, perché i suoi ricordi abbracciano spesso la farneticazione, indubbiamente affascinante grazie alla sua ‘mente colorata’ capace di creare cosmogonie ardite e biografie agiografiche. Mentre lui è legato alla sedia a rotelle noi siamo legati, durante la lettura, a pensieri e frasi instancabili che percorrono corridoi di lunga distanza. Mentre Busken è ricoverato per liberarsi dalle sue dipendenze, noi dipendiamo dal suo vocabolario, dal suo linguaggio vibrante come un termitaio preso d’assedio.

La voce narrante paragona la propria prigione a quella del Castello d’If di Dumas, un luogo impenetrabile e sinistro da cui il futuro Conte di Montecristo riuscirà a fuggire con uno dei suoi primi celebri inganni. Busken invece è costretto a rimanere, non ha un abate Faria con cui fare dotte conversazioni o avere fortuiti scambi; i coltelli sono di plastica perché i ‘clienti’ non si facciano del male in mensa, anche se un coltello vero sarebbero di grande aiuto per scavare un ‘tunnel’ e fuggire da un mondo, quello della casa di cura, che lo contiene ma non gli appartiene. È insomma una sorta di Montecristo al contrario: se infatti Edmond Dantès fugge da Marsilia e assume, di volta in volta, diverse identità per perseguire imperterrito, anche attraverso la celebrità raggiunta, il proprio scopo, Busken arriva a Villa Madeleine, con quel nome così proustiano, nell’anonimato e, con un certo grado di soddisfazione, ci ricorda i disparati ruoli che ha ricoperto sul palcoscenico della vita dove è stato primo attore.

Una vita ora, a suo dire, defraudata, dal momento che viene trattato dal personale sanitario come un bambino come spesso succede agli anziani, lui che è stato parte decisiva in un’esplorazione scientifica nelle terre artiche, medico chirurgo di chiara fama, studioso conteso dai più importanti simposi filosofici e medici del mondo. E ancora: fine latinista e dolcestilnovista con numerose pubblicazioni all’attivo, gradito frequentatore della corte della regina Beatrice dei Paesi Bassi, di cui è stato confidente, habitué della cultura “alta” con reciproche simpatie con l’Accademia di Svezia, ma anche di quella bassa con l’abbandono all’alcool nel suo appartamento promiscuo, abitato da abitudini altrettanto promiscue. Del resto «cosa non passa per la testa di una persona quando si distrae per un attimo senza pensare a nulla in particolare, riemerge di tutto, ricordi sparsi che vagano nella mente come folletti in un bosco. Cosucce».

Mentre il suo sguardo scompare nel vuoto e le «cosucce» del passato si nebulizzano in pensieri confusi in un’assenza da dormiveglia attraversata da tremolii, E. BUSKEN, come recita la scritta sulla targhetta d’ottone affissa sulla porta della sua camera (o cella), viene spesso affiancato, tampinato da un’allegra e disinvolta ottuagenaria, celebre manista, ora in pensione, che ha fatto, pare, diverse comparse, ma solo con la sua bella e affusolata mano, nel cinema di Hollywood. La donna ha un immenso rispetto per l’autorità di studioso e letterato di Busken e, data la comune nuova vita alla Madeleine, cerca di coinvolgerlo sempre più nelle dinamiche della RSA e nel grande evento dell’anno che sta per avvicinarsi: il barbecue. Il protagonista poi sperimenta un minimo rapporto con un’infermiera appena assunta, e quindi non ancora corrotta dal sistema, che si mostra premurosa benché abbia una voce da camionista. Ma per il burbero Busken queste vicinanze, a maggior ragione dell’attempata Mieneke che allunga spesso la sua mano corsara, lo disturbano, perché lui vuole rimanere in compagnia dei suoi pensieri che hanno il vento sempre in poppa a differenza della sua fisicità, che ha ammainato le vele in attesa dell’ultimo porto.

Ma vattene, donna farneticante con i tuoi doppi sensi sconci, e lasciami ai miei pensieri, con lo sguardo che pascola nel paesaggio rurale al di là del vetro della finestra. Mi sento impaurito, oppresso, inquieto, sta cominciando ad accadere qualcosa e io non riesco più a tenere il passo, ad arrivare alle cose, come se mi fossi ristretto quando un tempo ero così grande. Aveva chiamato, signor Buskn? Suzan e la sua nappa. Sono sordo e perciò non la sento. Continuo imperterrito a guardare fuori dalla finestra, il sole si alterna all’assenza di sole, quest’ultima più frequente del primo. Non ho chiamato, io non chiamo mai, chiamando darei a intendere di aver bisogno di qualcuno, io non ho bisogno di nessuno.

Ridotto a «cosa indegna di essere definita adeguatamente», si sente come una matita di pastello verde Nilo, «un manufatto di élite», che sta nello stesso bicchiere con un dozzinale spazzolino da denti di un arancione sgargiante e pacchiano, immagine che conferma la sua connaturata misoginia ed egotismo e che rappresenta inoltre un’offesa per la sua coscienza etica. Contro la costrizione piccoli atti di sabotaggio sono a porta di mano: lasciare il tappo del dentifricio in giro, avvicinarsi alla zona off-limits in giardino ed elargire nel pannolone gentili omaggi al personale della struttura.

Dietro Busken e il suo sguardo surreale e impresente mutuato dagli «squinternati» che, giorno dopo giorno, lo circondano in quella gabbia da zoo metafora del mondo di fuori, dietro questo Conte di Montecristo al contrario che è stato tutti e, al contempo, nessuno, a questo uomo che ci svela la realtà e, al contempo, le tante e (s)comode rappresentazioni, a questo degente che sembra avere nostalgia di un venerdì mentre in realtà sta già pensando al sabato nella lotta per la dignità del proprio pensiero, dietro a questo sedicente sordo ma con l’orecchio assoluto, c’è Jeroen Brouwers (1940-2022), figura di spicco della letteratura nederlandese, poco noto in Italia.

Il cliente Busken (Iperborea 2024), nella ritmata traduzione di Claudia Di Palermo e Francesco Panzeri, è un’opera ultimativa e indisciplinata, dalla scrittura abrasiva e funambolesca, scritta nei momenti liberi tra un’entrata e un’uscita dall’ospedale di Brouwers.

Ci appare come una sorta di manoscritto trovato in una bottiglia, redatto da chi non è mai stato in pace con sé stesso e ha sempre odiato il mondo e i suoi meccanismi. Ma senza privarsi di quello humour pungente con il quale combattere la mediocrità degli altri che, coscienti, accettano di essere tali, il politically correct come norma e anche il proprio orgoglio di forte polemista e scrittore disturbante, in un’alternanza di luce e ombra che accarezza le palpebre e penetra fino dentro il guscio di ognuno di noi.

Quel noi che, in fondo, non ama prendersi troppo sul serio. Lì nei meandri più profondi, benché con un’intensità di luce ridotta, incontreremo la chiarezza di chi siamo. E, se non la incontriamo, abbiamo sbagliato strada. Poco male, si può sempre ricominciare da capo…