Il corpo
Il mese scorso mi sono trovata tra le braccia il corpo esanime di Sando, un amico, per certi versi un fratello maggiore, dato che ho sempre avuto l’impressione che, tra i due, quello responsabile e lungimirante fosse lui. Dopo un malore avevo deciso di chiamare il veterinario che aveva confermato l’urgenza dei barbiturici. Ero entrata nella clinica con in braccio un cane di quindici anni e ne ero uscita con una carcassa dentro una scatola per spedizioni. Sando odiava i corrieri che usavano quei cartoni: ogni volta che arrivavano a casa diventava un intransigente Leviatano pronto a mozzare teste; per un momento, quando lo avevo visto nello scatolone, avevo pensato che avrebbe scatenato un putiferio: nessuna escandescenza.
Dopo aver scavato una fossa nel suo punto preferito, dopo aver sostituito il cartone con una cesta che non l’avrebbe fatto dannare per l’eternità, avevo dovuto prenderlo in braccio. In quel preciso istante tutti i pensieri su cosa avrebbe preferito – una fossa vicino al melo o una di fronte al pino? Il cubo di cartone o una cesta in vimini trapuntata? – sono diventati ridicoli. Sando non era lì, ora c’era una cosa, non un vivente.
L’ho sepolto per me e in ricordo di quello che è stato, ma quel corpo non era Sando, era una materia inerme: gonfio con la lingua viola a penzoloni e gli occhi spenti.
Era ciò che la parola greca σῶμα significa in Omero: soma è il corpo esanime, il cadavere che a differenza del corpo vivente non ha possibilità. Non è più un corpo che riflette su di sé il mondo e da questo è riflesso, è una res, mera cosa tra le cose: la salma è la carne vista che però non può vedere.
«Nel cadavere, infatti, la mano rivela sé stessa, mentre nel corpo rivela gli oggetti che tocca […]», scrive Umberto Galimberti in Il corpo (Feltrinelli, 2018).
Il corpo vivente invece assume vari significati a seconda della possibilità che esprime: le membra, gli arti, così come le altre parti del corpo, secondo Omero non sono cose che un Io trascendentale unifica, ma le stesse possibilità del corpo, eterogenee e ambivalenti, che rappresentano la vita incarnata che muta al mutare del mondo.
È la morte che privando il corpo del suo essere in azione fa sì che sia ridotto a sola materia.
«Se la differenza tra corpo e cadavere sta nel fatto che il primo è in relazione attiva col mondo che lo indica e lo significa, mentre il secondo è cosa nel mondo, da esso ospitato come tutte le cose, per intendere il corpo non bisognerà partire dalla relazione platonica con l’anima che riduce il corpo a cosa, ma da quella omerica col mondo, dove il corpo è in azione e il mondo è l’abbozzo delle sue possibilità» evidenzia ancora Galimberti.
Ma, allora, che cosa rimane di Sando? La carne.
Nella tradizione occidentale la carne animale ha un valore diverso rispetto a quella umana. Da Platone in poi – salvo poche eccezioni come Epicuro, che riteneva l’anima sostanzialmente materiale –, l’uomo è un animale diverso dagli altri perché ha un’anima trascendentale, preclusa al resto degli animali. Anche se alcune recenti acquisizioni in campo neuroscientifico danno ragione a Epicuro, sostenendo che ogni nostra percezione, sensazione, conoscenza e sentimento derivano originariamente dalle impressioni del corpo, continuiamo ad avere una visione dualistica che oppone anima e corpo, spirituale e materiale.
Abbiamo adottato una logica disgiuntiva che ha fatto della carne umana un contenitore vuoto riempito da un qualcosa di valore – l’anima, appunto – che rende la carne un corpo e il sopravvivere un’esistenza.
A seconda del periodo storico, ci troviamo di fronte a vari attributi che conferiscono eccezionalità all’uomo – l’anima, il linguaggio, la coscienza, inconscio… –, innumerevoli variazioni del dualismo platonico. Tuttavia, i tentativi fatti per separare la sostanza trascendente dal corpo materiale si sono rivelati vani: così come l’anima (e ogni eccezionalità umana) non può essere ridotta a una parte specifica del corpo, o addirittura essere considerata indipendentemente da questo, è impossibile ridurre l’individuo alla carne.
Per quanto riguarda gli animali non-umani, però, adottiamo questo riduzionismo senza problemi, fatta eccezione – a volte – per quelli che comunemente, come Sando, consideriamo pets (animali da compagnia o domestici).
Sappiamo che l’evoluzione accomuna tutto il regno animale, homo sapiens compreso, entro un’unica storia evolutiva; allo stesso modo sappiamo che le capacità della nostra specie sono comuni ad altre forme animali diverse dalla nostra, seppur in grado differente. Ma forse dimentichiamo ciò che ci accomuna: l’essere titolari di un corpo.
Il corpo prima di essere un oggetto conforme a una descrizione matematico-scientifica è una specie di intenzionalità, un’apertura al mondo. Prima dell’intelletto che oggettivizza c’è sempre un corpo situato nel mondo che si dirige, percepisce e dà significato alle cose; allo stesso modo il mondo è presente ben prima di ogni riflessione e descrizione. Esiste un rapporto immediato in cui il corpo si dà al mondo e il mondo si dà al corpo, in un’esposizione reciproca che è originaria, ed è proprio attraverso questa apertura che il corpo concepisce le proprie possibilità e si conosce.
Il corpo, quindi, è il veicolo che introduce al mondo.
Non esiste quindi un’esperienza interna divisa da quella esterna, la prima relativa all’io e la seconda al mondo, perché ogni esperienza è il riflettersi del mondo nell’io e il modificarsi dell’io per effetto del suo rapporto con il mondo. L’io è il corpo. A differenza del cadavere il corpo è fuori di sé, proteso verso l’alterità. Dal mondo ho la consapevolezza delle potenzialità del mio corpo, che non implica una qualche trascendenza e permette a ogni animale di provare emozioni e volontà. Attraverso il mezzo che siamo proviamo tutti un’appetenza, un desiderio che ci spinge fuori da noi, ed è proprio in questa alterità che sperimentiamo le nostre possibilità, mettendo a confronto le nostre dotazioni (caratteristiche non solo evolutive ma anche apprese con l’esperienza) e le cose, gli altri.
Per fare un esempio: vedere un cane che rincorre una palla non significa vedere un automa che rincorre un oggetto in modo istintuale. Piuttosto dovremmo sforzarci di capire che la palla, l’oggetto materiale, è un pretesto, ossia un mezzo, connotato da un certo grado di appetibilità con il quale il cane appaga il proprio desiderio di sperimentarsi, di correre e giocare (ammesso che ne abbia voglia).
Non possiamo ridurre la vita di un maiale al solo rotolarsi nel fango perché sta facendo esattamente quello che facciamo noi: sperimentare, tramite il corpo che è, sé stesso e il mondo, nel tentativo di provare emozioni e sensazioni piacevoli, cercando di evitare quelle di segno contrario.
In questo senso il corpo animale, e non sono quello umano, è un’apertura originaria al mondo, dove non c’è bisogno – come per Omero – di un’anima vivificatrice e trascendente, proprio perché c’è un corpo che vive e che è materialmente animato nella pienezza delle proprie possibilità. Ecco allora che il corpo non è solo carne ma anche possibilità di utilizzare quella carne come si vuole, secondo le proprie motivazioni.
Questo è ciò che accomuna ogni animale: l’essere titolare di sé stesso e delle proprie dotazioni, essere l’unico che può dirigerle, conoscerle, percepirle e progettarle secondo i propri bisogni.
Ma privando l’animale, ancor prima che della vita, delle possibilità di sperimentare sé e il mondo, lo stiamo relegando a una morte vivificata, a uno stato di completa espropriazione che nonostante lo lasci clinicamente vivo ne impone un impoverimento non solo quantitativo, ma anche qualitativo, nelle capacità di conoscersi e quindi sperimentarsi attraverso ciò che gli è naturale: il suo essere per sé stesso e nel mondo.