Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel

“Il corpo in cui sono nata” di Guadalupe Nettel

La malattia come intoppo alla normalità, urgenza conclamata di una sua riqualificazione nel rispetto dell’anomalia di ognuno attraverso un’esperienza che travalica i confini della certificazione medica e che funge da formidabile motore di ricerca e imperdibile occasione di indagine dentro sé stessa: potrebbe racchiudersi in questo nucleo il romanzo di Guadalupe Nettel, Il corpo in cui sono nata, edito da La Nuova Frontiera nella traduzione di Federica Niola, se non fosse che esso porta a un indefinito aprirsi di strade che rendono la narrazione qualcosa di più ampio e sottilmente intimo. Questo accade non solo perché lo svolgimento della propria vita, di cui consta il romanzo, quantomeno fino a un certo punto, assume la forma di una rivelazione e di una successiva e automatica ricomposizione di tessere in una sorta di colloquio lungo con la propria analista, ma anche perché, pur volendo escludere di quest’ultima la sua valenza realistica, lasciando al romanzo l’autorità di un dialogo con sé stessi, l’intimità si palesa alacremente in diversi raccordi di pezzi sfilacciati come la vita, laddove emerge un’indulgenza rivolta a sé che riecheggia qualcosa della scrittura autobiografica di Annie Ernaux.

Nonostante l’assonanza nella declinazione formale in cui dare seguito al proprio istinto di narrazione e parallela sistemazione di sé nel mondo, ciascuna rivendica l’originalità del proprio sguardo e, se la scrittrice francese non rinuncia mai al rigore e all’esattezza dell’oggetto della visione, temperata da un ammorbidimento sostanziale imposto dall’età, senza alcuna concessione a una lettura lirica degli accadimenti, qui non si indugia su lidi opposti, ma ci si lascia lambire più facilmente dal beneficio dell’ironia e dagli umori del corpo che non assurgono a chiavi di accesso di processi mentali, ma rimangono ciò che sono e in questo sprigionano la loro forza motrice.

Il corpo parla, racconta una storia che congiunge fili, traduce il senso dell’origine delle scelte, muove, disarciona, impone continui assestamenti e rinnovati equilibri, rivela ciò che ancora non sappiamo, anticipa la possibile conclusione delle storie. Un’anomalia corporale apre il romanzo e, in qualche modo, ne spiega il seguito: una voglia, un neo bianco, una macchia sull’occhio destro che si frappone all’ingresso della luce, dunque un impedimento alla normalità della visione che ne atrofizza la funzionalità ordinaria, lo isola dalla relazione con l’esterno, lo riempie di muffa in assenza di aria, ma fornisce la via alternativa di accesso ai propri abissi, quasi fosse necessario accostare alla normalità dell’occhio sinistro, e di una parte di vita, la specialità dello sguardo complessivo che, condizionato dalla malattia, regala alla scrittrice l’opportunità di vedere ciò che agli altri sfugge e il dono della ricollocazione nel mondo per il tramite della scrittura in cui quella visione si tramuta. Due luoghi, dunque, uno esclusivamente fisico e l’altro dell’anima a cui il corpo fornisce l’ingresso, sanciti, all’occhio pubblico esterno, dal cerotto che la protagonista è costretta a portare al mattino e che la introduce a un’altra sensorialità percettiva:

La mia vita si divideva in due universi: quello mattutino, costituito soprattutto da suoni e da stimoli olfattivi, ma anche da colori nebulosi, e quello pomeridiano, sempre liberatorio ma anche di una precisione stupefacente.

Ma dove collocarsi, alla fine dei giochi, esattamente? Quale forma dare al proprio modo di stare al mondo in una logica umana dove la scelta formale è consustanziale al bisogno di definirsi per poter essere? Dove posizionarsi senza tradire sé stessi, in un cortocircuito di istanze che vanno in direzioni opposte, generato dal contraddittorio fallito tra il bisogno di essere come gli altri per essere socialmente accettati e il desiderio di scoprire e difendere la propria individualità senza rinunciare all’opportunità di una condivisione con chi è fuori dal mondo ordinario, più o meno come noi, quantomeno nel gioco proiettivo degli avvistamenti adolescenziali? Recita un passaggio:

Dovevo scegliere tra l’immolazione disciplinata sull’altare della normalità fisica – che in ogni caso non sarebbe mai stata assoluta – e la rassegnazione.

Equilibrio delicato, dunque, instabile e in perenne assestamento, quello che l’autrice traccia partendo dalla scuola, ma senza mai dimenticare il principio di ogni cosa, il primo nucleo in cui facciamo esperienza di noi stessi, quel contesto familiare che, oltre a offrire un perfetto spaccato della società messicana sul finire degli anni ’60, travolta dalla coscienza diffusa dell’urgenza di un sovvertimento ideologico e politico dello stato delle cose, racchiude in una declinazione esemplare le profonde contraddizioni di un cambio di prospettive che, non sufficientemente introiettato, si ferma a una trasformazione formale dalle premesse rivoluzionarie, dagli esiti parzialmente e involontariamente reazionari. Senza traumi, lungo un filo che riporta al passato, che raccorda i tagli e lascia spazio a una rivoluzione ancora possibile, forse più intima, ma più vera, quella che conduciamo per diventare quello che vorremmo, coerentemente alle premesse condizionate dai carichi di nascita.

La scrittrice messicana assiste, quasi impotente e animata da una volontà di opposizione agli eventi, che riconosce essere fuori dalla sua portata di intervento e azione, alla separazione dei propri genitori di cui coglie gli aspetti fondanti, prima di cadere nell’evidenza drammatica di una loro impossibilità di ricomposizione. Dice del padre:

Che cosa posso dire di mio padre? Prima di tutto che è una delle persone più generose che abbia mai conosciuto. E anche se si arrabbiava in maniera piuttosto esplosiva e a volte spaventosa, tornava velocemente al suo temperamento entusiasta e al suo peculiare senso dell’umorismo.

Del regno materno, dove dominano stoicismo e austerità, racconta non solo il lato generoso che riporta alle forme paterne ricongiungendo gli opposti punti di nascita, ma anche l’imposizione ai figli di un carattere duro, indispensabile alla sopravvivenza all’ostilità della vita: un requisito che, posto dalla medesima latrice nei termini di unica soluzione ai tranelli del mondo e degli uomini, scricchiola rivelando sue fragilità sottese e paure sotterranee destinate a manifestarsi nel tempo attraverso scelte anacronistiche o l’adozione di norme di maggiore contenimento, quasi fosse indispensabile fermare il tempo o non disconoscere l’educazione dei padri di fronte al rischio di perdersi per sempre. Ideali sessantottini mandati all’aria nella ricerca di un riparo dal senso di pericolosa esposizione che l’incedere della vita rivela ai passanti, un tempo giovani e ignari dell’altro lato delle cose. Recita un passaggio a conferma della chiusura materna:

Viveva nel costante terrore di come ci saremmo potuti ridurre ogni volta che sfuggivamo, anche per poco, alla sua supervisione. Era convinta che, privato della sua severa sorveglianza, il mondo sarebbe irrimediabilmente crollato.

Eppure sarebbe bastato orientarsi diversamente, servirsi della parola non più come forma di ostentazione di un’idea di libertà evidentemente troppo avanti anche per gli stessi promotori, costretti a fare i conti con la discesa della medesima in terra, tra i figli. Sarebbe bastato essere più coerenti con sé stessi, seguire la normalità dell’istinto di protezione, mettere in guardia i propri figli sui pericoli a cui vanno incontro i minori, piuttosto che «generare confusione su questioni che non hanno alcun rapporto con le esperienze quotidiane di una persona di sette anni». Sarebbe bastato provare ad essere “normali” o quantomeno non nascondere con esacerbata ostinazione l’andamento tellurico del proprio stare al mondo. Non è casuale che, pur nel rigore di un regime dispotico come quello della nonna materna, chiamata a colmare assenze genitoriali in punti differenti del processo di crescita di Guadalupe e del fratello, in quel frangente la scrittrice si confronti con la fatica esistenziale, quella che la nonna «spaventata dall’eventualità che il caso prenda il sopravvento sulla sua vita e su quella dei suoi cari» non nasconde e che prelude al viaggio di Nettel nell’universo tremolante e affascinante della fragilità e del rischio, quella che la madre vive incanalandola in territori malati, convertendola nella dimensione inconsapevole dell’ipocondria. Ed è proprio il rapporto con la madre che attraversa ostinatamente le pagine del romanzo dal principio alla fine, «storia d’amore e di incontri mancati», come viene esplicitamente definito da Nettel, ma anche ragione della direzione del proprio percorso, che, seppure in una declinazione al negativo, in opposizione al passato, ci definisce, ci racchiude in una forma, configurandosi come vuoto il giorno in cui chi ci ha messo al mondo lascerà la vita, abbandonandoci alla nostra esclusiva responsabilità («Come se all’improvviso annunciassero all’ossessivo capitano Achab che la balena si è arenata per sempre e che lui non potrà mai più darle la caccia»).

Il romanzo, a ben guardare, si risolve in una ricerca di identità e di verità conseguenziale, in una delicata e talvolta ironica sospensione tra normalità e diversità che passa dalla condizione di malattia, quasi fosse necessario certificarne scientificamente lo stato per non incorrere nei giochi menzogneri con cui proviamo a sopravvivere alle ostilità della vita, nella falsità quotidiana, qualcosa che la madre conosce bene rivolgendola, prima ancora che alla figlia, a sé stessa, persino nel disconoscimento della fragilità che trova astutamente il modo di riemergere lungo i sotterranei canali ipocondriaci. Se normalità equivale a celare ciò che il simile rifiuta e che ci appartiene intimamente, meglio non esserlo, assomigliare a uno scarafaggio e muoversi in una “geografia alternativa” all’esclusione del mondo, esserlo, scarafaggi, per decreto materno o dalla nascita, conoscere la sofferenza, ma in fondo anche vincerla, esattamente come i discendenti dei trilobiti, «sopravvissuti ai cambiamenti climatici, alle peggiori siccità e anche alle esplosioni nucleari». Scarafaggi, ma anche lombrichi e scarabei popolano l’universo alternativo di Nettel e traducono in visioni sostenibili l’orrore della vita: da un certo punto si fanno cordiali, le sono amici, perché, quando la morte assume le sembianze di un suicidio di un’amica giovane, giovanissima, i mostri sono tutti o quasi racchiusi in un’angoscia intima, domestica e personale e raccontano un’altra infanzia, un luogo di imposizioni e di scelte subite che la memoria aggiusta per concederci la forza della resistenza, talvolta ammorbidendo l’impatto col dolore che rimane lì, sopito, pronto a esplodere alla prima occasione utile, con buona pace della falsità materna e adulta in genere.

In fondo, un omaggio, peraltro esplicitato, a Gregor Samsa senza la solitudine e la rinuncia al dialogo possibile, seppure coi margini del mondo, che il protagonista de La metamorfosi si preclude. Perché se nel racconto di Kafka la trasformazione è diretta verso un punto buio e intimo, introversa e irreparabile, perché l’esterno rifiuta le istanze di riconoscimento di sé del “deforme”, qui c’è ancora spazio per un’estroversione matura, per la luce e il volo di una farfalla. Nessuna disillusione, perché il tempo dell’investimento spropositato sull’altro è svanito, quanto una riappropriazione della dignità del proprio sguardo sulla vita e sul mondo che dell’anomalia si nutre nella porzione necessaria a superare i limiti sociali. Questo non significa che l’approdo sia la fine di ogni inquietudine, piuttosto la testimonianza di un’inevitabile decadenza, e non solo: il corpo genera, a tratti, un senso di estraneità, disarticola le associazioni emotive dei ricordi, ridimensiona, avvicina, allontana. Il tutto con la precarietà della soggettività di ogni oggettività e in funzione dell’esigenza del presente. Se pensiamo che esso è ciò che ci radica profondamente, perché in modo tangibile, al mondo e che lo fa offrendoci l’opportunità di distinguerci, di essere in esso, probabilmente non resta che abitarlo con le sue specificità, ci suggerisce Nettel.

Nonostante ciò, nonostante una saggezza di adattamento che non implica tradimento delle proprie istanze identitarie, è abbastanza facile cadere nella tentazione di riprendere tra le mani il racconto kafkiano e di porlo come quello che avrebbe potuto essere la fatica della scrittrice messicana se la sua storia personale e familiare si fosse dispiegata diversamente. In risposta, è evidente che nell’universo di Nettel, la percezione del proprio corpo quale manifestazione tangibile di una diversità non arriva mai a generare la conflittualità estrema con il resto del mondo, che siano gli affetti familiari, le amicizie infantili o adolescenziali o il blocco quasi monolitico degli adulti. Tutte le esperienze finiscono in buona parte per rimandare a sé e, ripulite dell’ingombro proiettivo, si traducono in strumenti di vita restituendo spesso una riduzione, mai una perdita totale, dell’affettività coltivabile esternamente. Le tessere, alla fine, si ricompongono nell’unico ordine possibile: quel caos di intoppi e saltelli, cadute e zoppie con cui rispondiamo ai moti terrestri, rimaniamo faticosamente in piedi, rinunciando alla fuga dalla vita, nell’impossibilità di congiungere, fuori dallo spazio della nostra coscienza, origini e desiderio.

di Alessandra Bartucca