Federico Musardo
pubblicato 9 anni fa in Letteratura

Il Morgante di Pulci

un poema divertente

Il Morgante di Pulci

Perché Luigi Pulci nella scuola è quasi dimenticato?

Non è uno scrittore accademico e non ha intenti didascalici, forse, eppure insegna e trasmette, a modo suo. Mi soffermo su un celebre passo estratto dalla sua opera più importante, il Morgante.
Si tratta di un poema cavalleresco percorso da una brillante vena satirica, burlesca, scritto alla corte di Lorenzo il Magnifico, appartenente alla potente famiglia dei Medici di Firenze, in un ambiente fertile per la cultura del tempo, una culla multiculturale di menti eccelse, tra cui ricordiamo i filosofi Marsilio Ficino e Pico della Mirandola, gli artisti Sandro Botticelli e il giovanissimo Michelangelo e, infine, Angelo Poliziano, raffinato umanista. Questo ambiente fervido influì certamente sulla scrittura di Pulci che mantenne comunque una certa indipendenza letteraria.

Nonostante egli avesse una discreta cultura e un ruolo preminente all’interno della Corte, venne messo al bando quando iniziarono a prevalere, sul tono disimpegnato degli scritti giocosi ( leggerezza condivisa dal Magnifico nella sua modesta produzione letteraria), questioni di morale nate dall’esigenza di trovare un’etica attuale seppur attinta dal passato, come il neoplatonismo di Ficino ed altre speculazioni filosofiche.
Tralasciando l’impianto del poema, affatto complesso, tralasciando la trama, distesa e non necessaria, riporto il diciottesimo canto, l’incontro tra Morgante, scudiero del paladino Orlando, e Margutte, un “gigante nano“, a metà, perché pentito nel mezzo della sua trasformazione.

Giunto Morgante un dì in su ‘n un crocicchio,
uscito d’una valle in un gran bosco,
vide venir di lungi, per ispicchio,
un uom che in volto parea tutto fosco.
Détte del capo del battaglio un picchio
in terra, e disse: “Costui non conosco
“; e posesi a sedere in su ‘n un sasso,
tanto che questo capitòe al passo.

Morgante guata le sue membra tutte
più e più volte dal capo alle piante,
che gli pareano strane, orride e brutte:
“Dimmi il tuo nome – dicea – vïandante”.
Colui rispose: “Il mio nome è Margutte;
ed ebbi voglia anco io d’esser gigante,
poi mi penti’ quando al mezzo fu’ giunto:
vedi che sette braccia sono appunto”.

Disse Morgante: “Tu sia il ben venuto:
ecco ch’io arò pure un fiaschetto allato,
che da due giorni in qua non ho beuto;
e se con meco sarai accompagnato,
io ti farò a camin quel che è dovuto.
Dimmi più oltre: io non t’ho domandato
se se’ cristiano o se se’ saracino,
o se tu credi in Cristo o in Apollino”.

Rispose allor Margutte: “A dirtel tosto,
io non credo più al nero ch’a l’azzurro,
ma nel cappone, o lesso o vuogli arrosto;
e credo alcuna volta anco nel burro,
nella cervogia, e quando io n’ho, nel mosto,
e molto più nell’aspro che il mangurro;
ma sopra tutto nel buon vino ho fede,
e credo che sia salvo chi gli crede;

e credo nella torta e nel tortello:
l’uno è la madre e l’altro è il suo figliuolo;
e ‘l vero paternostro è il fegatello,
e posson esser tre, due ed un solo,
e diriva dal fegato almen quello.
E perch’io vorrei ber con un ghiacciuolo,
se Macometto il mosto vieta e biasima,
credo che sia il sogno o la fantasima;

ed Apollin debbe essere il farnetico,
e Trivigante forse la tregenda.
La fede è fatta come fa il solletico:
per discrezion mi credo che tu intenda.
Or tu potresti dir ch’io fussi eretico:
acciò che invan parola non ci spenda,
vedrai che la mia schiatta non traligna
e ch’io non son terren da porvi vigna.

Questa fede è come l’uom se l’arreca.
Vuoi tu veder che fede sia la mia?,
che nato son d’una monaca greca
e d’un papasso in Bursia, là in Turchia.
E nel principio sonar la ribeca
mi dilettai, perch’avea fantasia
cantar di Troia e d’Ettore e d’Achille,
non una volta già, ma mille e mille.

Poi che m’increbbe il sonar la chitarra,
io cominciai a portar l’arco e ‘l turcasso.
Un dì ch’io fe’ nella moschea poi sciarra,
e ch’io v’uccisi il mio vecchio papasso,
mi posi allato questa scimitarra
e cominciai pel mondo andare a spasso;
e per compagni ne menai con meco
tutti i peccati o di turco o di greco;

io n’ho settanta e sette de’ mortali,
che non mi lascian mai la state o ‘l verno;
pensa quanti io n’ho poi de’ venïali!
Non credo, se durassi il mondo etterno,
si potessi commetter tanti mali
quanti ho commessi io solo alla mia vita;
ed ho per alfabeto ogni partita.

Durante questo dialogo Margutte professa la sua fede, affermando implicitamente la sua attitudine opportunistica che oltrepassa ogni superstizione, criticando i credi religiosi ( Maometto o Cristo, che sia) in maniera del tutto spontanea e naturale, lontano dai dogmi artefatti che hanno abbindolato generazioni di credenti.

La posizione assunta da Margutte, individualista ante litteram e lontano da una fede salda, è modellata sullo stile comico-burlesco oppure è il riflesso di un’opinione realmente diffusa tra alcuni strati della popolazione? Si tratta di topos letterari o di animi eterodossi?

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