Il senso di una vita sovietica
"Il treno zero" di Jurij Bujda
Forse effettivamente qualcosa lì c’è. Tutto può essere. Ma allo stesso modo lì potrebbe non esserci nulla, e comunque eccola, la Linea, esiste, e lo zero corre, e noi viviamo, e in tutto questo un senso c’è, solo che ci è ignoto quale sia. Come nella vita. Può essere?”
“Vanja…” disse Fira, turbata. “Ma è di Dio che stai parlando. Vanja…”
“Ma quale Dio?” si stupì Ivan.
“Nello stesso modo in cui hai parlato ora della Linea, gli uomini da millenni parlano di Dio.
Edito per la prima volta nel 1993 e tradotto da Noemi Albanese nel 2018 per Atmosphere Libri, Il Treno Zero (Don Domino) è una delle opere più note di Jurij Bujda e anche l’unica apparsa in italiano. Nato nel 1954 a Znamensk, nella regione di Kaliningrad, Bujda risiede oggi a Mosca, dove lavora come redattore per la casa editrice Kommersant. La storia di Il Treno Zero prende avvio alla Nona Stazione, luogo dal cronotopo indefinito (sappiamo solo che è molto lontano da Mosca) dove una piccola comunità sovietica ha un unico, importantissimo e inderogabile compito: far sì che il treno passi sempre in orario, a mezzanotte in punto senza intoppi, come afferma il colonello dai capelli rossi, che supervisiona il lavoro alla stazione:
Morite, fatevi in quattro, uccidete, se è necessario, ma che questo treno viaggi senza ritardi, senza intoppi, né più, né meno. Chiaro?.
Lo Zero, «cento vagoni con porte chiuse ermeticamente e piombate, due locomotive davanti, due dietro», definisce ogni aspetto della vita alla stazione, ma nessuno ha idea di cosa trasporti, da dove venga e dove sia diretto. Ed ecco che quindi il treno si carica di una valenza quasi religiosa e il lavoro che lo riguarda deve essere svolto senza porsi domande, con dogmatica accettazione e cieca devozione nei confronti della Patria, che lo ha predisposto.
Il più devoto di tutti è sicuramente Ivan Ardab’ev, soprannominato Don Domino per la sua passione per l’omonimo gioco e il suo volto «ispaneggiante», che aspetta il treno come «si aspetta Dio, o, forse, il diavolo». Protagonista e filtro della narrazione, Ivan Ardab’ev è figlio di nemici del popolo ed è stato cresciuto in un orfanotrofio statale. Il lavoro alla stazione e il passaggio dello Zero diventano praticamente la sua unica ragione di vita, perché lui, più di chiunque altro, deve dimostrare di essere all’altezza del compito che gli è stato affidato: Ardab’ev è “tutto futuro”, così come lo Zero è futuro, è il progresso sovietico nella sua manifestazione più pura.
Sebbene lo Zero rappresenti il futuro, le sorti della comunità della Nona Stazione si intrecciano, sin da subito, con la morte: proprio durante il passaggio inaugurale del primo treno, una delle abitanti della stazione partorisce un bambino nato morto, il primo di una lunga serie. È lo stesso posto ad essere inospitale e a respingere la vita, come ci suggeriscono le descrizioni di Bujda. Tutto alla Nona Stazione è pesante, metallico, artificiale e, paradossalmente, anche coloro che dovrebbero rappresentare la vita nel suo aspetto più primordiale, le prostitute della Quinta Stazione, hanno
seni di ghisa che odoravano di ossido di carbonio, con le ribaditure al posto dell’ombelico e con una boccola di acciaio in quel posto.
In questo mondo di metallo e ruggine, tuttavia, si può ancora trovare un barlume di bellezza: si tratta di Fira, Ėsfir’ Landau, che per Don Domino è «tutte le donne in una volta», il suo «ultimo amore». A differenza delle prostitute della Quinta, Fira è leggera, eterea, trasparente:
la vide in piedi in una minuscola bacinella poco profonda […], il sole dalla finestra la illuminava da parte a parte, tanto che lui poté distinguere chiaramente il cuore che le batteva come un uccellino, la massa fumosa del fegato, l’argentea campana dorata della vescica, le ossa azzurre, che nuotavano nella gelatina rosa del suo corpo.
e soprattutto Fira non odora di Patria, «che odorava di cavolo lesso e di carne di donna lavata male», ma è pane, è casa, quella che Ivan Ardab’ev non ha mai avuto. Ed è proprio l’odore di Fira, la sua presenza, a far vacillare la fede di Ivan nella Patria-madre, perché per Fira farebbe qualsiasi cosa, tranne andarsene dalla Nona Stazione.
La narrazione è fatta di continui salti tra il passato e il presente, distinti dal diverso uso della punteggiatura, come suggerisce Noemi Albanese nella sua postfazione: per i dialoghi del passato lo scrittore utilizza le virgolette, per quelli al presente i trattini. Filo conduttore di tutto il romanzo è la ricerca incessante di un senso, che all’inizio riguarda semplicemente il lavoro alla stazione ma che, pagina dopo pagina, assume una connotazione più alta, mistica. Non tutti sono devoti come Ivan Ardab’ev e quindi c’è chi per cercare questo senso si allontana, chi impazzisce, chi muore. Ivan è l’unico che continua ad aggrapparsi alla vita alla stazione, anche quando tutti se ne sono ormai andati, perché:
Ho solo la Patria […] Tutto ciò che è mio è qui. E se tutto questo è lo zero e a causa dello zero, allora tutto ciò che è mio è lo zero.
In uno stato ateo, Don Domino finisce per diventare sacerdote di una religione laica che venera un treno forse fantasma («Il nessun treno. Che razza di numero sarebbe per un treno?»), e manifesta questa sua venerazione dedicando diligentemente la propria vita a un lavoro senza senso. Il racconto è una metafora di un mondo, quello sovietico, che richiedeva ai suoi cittadini impegno e devozione ma che, come la comunità della Nona Stazione, finisce pian piano per sgretolarsi, perdendo le sue certezze. Le vie d’uscita, alla fine, sono solo due: una rassegnata disillusione o una tragica autoaffermazione.
di Francesca Belfiore