Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Storia

(In)giustizia sommaria

L'atroce linciaggio di Donato Carretta

(In)giustizia sommaria

Roma, 18 settembre 1944. È una giornata luminosa di fine estate. Al mercatino di Tor di Nona la gente si affolla alla ricerca di qualcosa da mettere sotto i denti, in aggiunta al misero boccone della carta annonaria. Affamati ma finalmente liberi! Per lo più si baratta: pasta in cambio di caffè o di surrogato, farina, zucchero contro olio di oliva, sigarette e latte condensato delle truppe alleate contro uova fresche. Una gran voglia di riprendersi la vita e di lasciarsi alle spalle gli orrori della guerra.
Ma è anche l’ora della resa dei conti.

Da ponte Umberto si sente provenire un vociare indistinto che cresce di intensità fino a sfociare in grida e urla minacciose di una folla in tumulto. Basta salire le scalette che da Tor di Nona portano sul Lungotevere per rendersi conto che ci sono dei disordini davanti al Palazzo di Giustizia e basta poco per capirne la ragione. Al “Palazzaccio” si tiene la prima udienza del processo contro l’ex questore di Roma Pietro Caruso e il suo braccio destro Roberto Occhetto, accusati di aver collaborato con la Gestapo e le truppe di occupazione tedesche in tutta una serie di soprusi contro la popolazione romana e soprattutto nella predisposizione delle liste di quanti, il 24 marzo, erano stati trucidati per la rappresaglia alle Fosse Ardeatine.

L’udienza prende subito una brutta piega. Una moltitudine di curiosi, di testimoni e di familiari delle vittime delle violenze di Caruso e dei suoi uomini, radunatasi avanti al “Palazzaccio” fin dalle prime ore della mattina, riesce a sopraffare il servizio d’ordine dei carabinieri e invade l’aula del processo lanciando grida ostili contro gli imputati e minacciando di fare giustizia sommaria. Quando poi il giudice, vista la situazione, ritiene prudente rinviare il dibattimento e ordina di sgombrare l’aula, la folla interpreta questa decisione come un espediente dilatorio a vantaggio degli imputati e l’atmosfera diventa ancora più incandescente. È in questi momenti di altissima tensione che qualcuno riconosce Donato Carretta, direttore del Carcere di Regina Coeli durante l’occupazione nazista. La rabbia della folla trova il suo capro espiatorio.

A nulla valgono i tentativi dei carabinieri di sottrarlo ai suoi assalitori. Carretta viene trascinato sul Lungotevere e sottoposto a un linciaggio di inaudita ferocia. Non paga del massacro, la folla stende il corpo martoriato di Carretta sulle rotaie e ingiunge al conducente del tram in transito di travolgerlo. In mezzo a tanto orrore, c’è solo un individuo che mantiene la propria dignità di uomo ed è il tranviere. Si rifiuta di assecondare la pretesa di quella massa fuori di senno assetata solo di sangue. Anzi si premura di bloccare i freni della vettura per evitare che venga sospinta a forza di braccia su quel povero corpo. Si chiama Angelo Salvatore.

Ma non basta. Il moribondo Carretta viene gettato nel Tevere, finito a colpi di remo e poi trascinato in barca fino al carcere di Regina Coeli per essere appeso ad una inferriata e ancora dileggiato.
Se tanta ferocia non può trovare alcuna attenuante nemmeno nel clima creato nella popolazione romana dagli orrori della guerra e della occupazione nazista, c’è un dato di fatto che la rende ancora più assurda e spregevole: Carretta non era imputato di nulla in quel processo ed anzi era stato convocato come testimone a carico di Caruso. Anche se iscritto al fascio, si era comportato sempre in modo corretto ed anzi, come accertò la commissione di inchiesta nominata dal governo nell’ottobre 1944, in più occasioni aveva salvato la vita ad antifascisti detenuti aiutandoli a fuggire e, in alcuni casi, a sottrarsi alle ricerche nascondendoli perfino in casa propria. Secondo alcune testimonianze, aveva aiutato persino Giuseppe Saragat e Sandro Pertini a evadere dal carcere nel gennaio del ’44.

Il processo contro Caruso proseguì il 20 settembre in una diversa sede e questa volta tra severe misure di sicurezza e si concluse in appena due giorni con la condanna a morte per Caruso che il 22 successivo venne fucilato a Forte Bravetta, mentre al suo braccio desto Roberto Occhetto fu inflitta una pena di trent’anni di reclusione.
Sul perché di tanta ferocia nei confronti di Donato Carretta permangono tutt’ora molti dubbi. Gabriele Ranzato, storico dell’Università di Pisa, ha analizzato i motivi scatenanti quella esecuzione sommaria e nel suo libro Il linciaggio di Carretta. Roma 1944. Violenza Politica e Ordinaria Violenza, ha inserito il tragico episodio nel dibattito sull’epurazione e lo ha confrontato con altri casi di giustizia politica verificatisi nell’Italia del dopoguerra.

 

Articolo a cura di Camilla Andreassi. 

 

 

 

 

 

 

 

FONTI
– G. Ranzato, Il linciaggio di Carreta, Roma 1944. Violenza Politica e Violenza Ordinaria, il Saggiatore, Milano 1997
– V. Zara Algardi, Processi ai fascisti, Valsecchi 1973

L’immagine di copertina proviene da: https://it.wikipedia.org/wiki/File:Donato_Carretta,_nel_corso_del_processo_contro_Caruso_viene_accusato_da_una_donna.jpg