Culturificio
pubblicato 2 anni fa in Recensioni

“La fiaba nucleare dell’uomo bambino” di Hamid Ismailov

“La fiaba nucleare dell’uomo bambino” di Hamid Ismailov

Nessuno poté salvarlo, neppure gli elfi o le rusalke. E da allora, sebbene il suo corpo sopravvisse e crebbe, la sua anima restò intrappolata in quella notte, dentro quel lago, sotto l’incantesimo eterno della luna, della sua argentea scia danzante, pervasa di magici suoni… Tu mi ricordi quell’uomo bambino…

Il violinista bulgaro Petko, soprannominato Pedo, condensa l’anima de La fiaba nucleare dell’uomo bambino dello scrittore uzbeko Hamid Ismailov (Utopia, 2021, traduzione di Nadia Cicognini) in questo estratto dai contorni drammatici, in cui percepiamo magia, folklore, incanto, amarezza e, da ultimo, violenza. Il passaggio premonitore sembra riferirsi infatti a Eržan, l’uomo bambino protagonista della storia, ventisettenne racchiuso nel corpo di un talentuoso dodicenne che su un treno narra la propria vita a un passeggero. 

Siamo negli anni successivi alla caduta dell’Urss e i due si incontrano nello scompartimento di un treno che sferraglia lungo la steppa kazaka, quando il narratore resta incantato dalla maestria con cui il piccolo prodigio suona il violino. Spinto dalla curiosità, si informa sulla storia del ragazzo kazako, che senza esitazioni comincia a favoleggiare di tempi suggestivi, persi nell’atmosfera della steppa.

Eržan nasce in una stazione di transito del Kazakistan e fa parte di una doppia famiglia, composta da una parte da nonno Daulet e nonna Ulbarsyn, da zio Kepek e dalla madre Kanyŝat, dall’altra dai parenti del defunto collega guardalinee di Daulet, nonna Ŝolpan, suo figlio Ŝaken, la moglie Bajĉiĉek e la piccola Ajsulu, amata da Eržan. Proprio la famiglia sarà fondamentale nel modellare la sua infanzia a ritmo dei canti della tradizione kazaka, delle fiabe dolci delle nonne, dei miti cosmogonici e del suono malinconico della dombra.

Ascoltando la musica della sua terra, il bambino si emoziona e impara precocemente a suonare, prima proprio la dombra, poi il violino regalatogli da un Ŝaken che ripone in lui e nella fusione dell’atomo la speranza di superare l’America, in un confronto mondiale che qui pare quasi fuori luogo. Già, perché lo stesso giorno in cui nonno Daulet consegna al nipote l’armonia del canto dei bardi, il giovane si ritrova di fronte la paura e la violenza della Zona: il poligono nucleare di Semipalatinsk, sede di devastanti test nucleari e luogo in cui è stato concepito.

La Zona assume la forma di un tafano spaventoso che rimbomba nella testa del bambino, finché non decide di riversarsi nel mondo, rovesciando il treno su cui viaggiava il protagonista e costringendo le famiglie a rintanarsi per giorni dentro le case, dalle cui finestre gettano vasi di urine “«rosse per la vergogna»”.

Quando la terra non è sconvolta dalle esplosioni nucleari, il bambino affina la padronanza del violino con il maestro Petko, comincia a frequentare la scuola con Ajsulu e vive le avventure semplici dei primi anni nella certezza di un futuro in cui sarebbe diventato Dean Reed e avrebbe sposato il suo amore.

Tuttavia, i suoi desideri sono vani davanti al terrore senza scampo del destino. Perseguitato dal mito di Gesar e dal racconto di Wolfgang, Eržan si identifica con gli sfortunati protagonisti di quelle fiabe misteriose e soccombe al richiamo dell’acqua pesante del Lago Morto. Un tuffo nel cratere radioattivo genera sgomento e ammirazione negli altri ragazzini presenti, ma stabilisce anche il punto di non ritorno per il Wunderkind della steppa: da quel giorno non crescerà più.

Per un dodicenne vedere che tutti i coetanei, che una volta sovrastavi, ora ti superano in altezza è una sorpresa insopportabile, un’esondazione di nuove insicurezze che allaga anche i campi ancora intatti. Se poi l’immaginazione fa il suo corso, possiamo capire quanto la crescita impetuosa di Ajsulu possa danneggiare l’autostima di Eržan e come le uniche cose che germoglino siano la rabbia e il risentimento.

Ammazzala! Ammazzati!

Questo pensiero gli pulsava nella testa al ritmo sempre più accelerato del suo cuore e, finite le lezioni, tornava a trascinarsi sulla solita strada, oppresso da dubbi e tormenti che non lo conducevano da nessuna parte, se non a casa.

Dopo questa presa di coscienza collera, gelosia e disperazione accompagnano le sue ossessioni in un isolamento che non può essere scardinato dall’insistenza di Ajsulu, né dai tentativi disastrosi di salvarlo dei parenti. La nuova-vecchia statura assume il senso di condizione subalterna, insignificante nei rapporti con gli altri.

A chi importava davvero di lui? Tutti non facevano che fingere, specialmente le nonne, per non parlare degli altri…

Eržan era l’unico a non occupare alcuno spazio nelle loro vite, a lui non era destinato alcun posto.

Questo stato d’animo favorisce il fiorire dell’odio e del sospetto verso gli altri, di cui il ragazzo, ormai cresciuto, scopre gli inganni e le menzogne, sviluppando consapevolezza della sofferenza della vita.

Anche la lingua è impregnata di questa sofferenza e, allo stesso tempo, di stupore infantile. Lo stile di Ismailov è crudo, l’autore affronta senza pudore il quotidiano dei personaggi e stupisce la naturalezza con la quale delinea lo scenario spoglio ma brillante degli eventi narrati. Semplicità e linearità delle frasi si accompagnano alla concretezza delle metafore, in cui il rumore e la brutalità della Zona si trasformano in un tafano che ronza nelle orecchie di Eržan, e a quella dei miti, che si riflettono nei membri delle due famiglie.

La fiaba di Ismailov tratta di un mondo fantastico eppure ben radicato nella terra, partecipe e afflitto dalla Storia. Una breve prefazione al libro ci informa che tra il 1949 e il 1989 nella regione abitata del Semipalatinsk furono eseguiti alcuni test nucleari che scaricarono una potenza esplosiva e radioattiva pari a duemilacinquecento volte quella di Hiroshima.

Nel libro le conseguenze di queste esplosioni sono evidenti: i personaggi espellono urine colorate, perdono capelli e peli; la pioggia acida, l’aria irrespirabile e l’erba dalla crescita incontrollata avvolgono il paesaggio. Le ripercussioni giungono al loro apice con il “corpo dentro al corpo” che prolifera dentro Ajsulu in ospedale, deriva organica opposta al corpo bloccato di Eržan, ma soggetta alle stesse leggi.

L’incredibile storia del violinista nucleare, dell’uomo lupo della steppa, dell’essere divino incagliato in un bambino, è una ripetizione, un frammento del mondo reale che si avvolge nel racconto e attraversa chilometri – come il treno nel deserto kazako – e supera le censure del governo uzbeko per raggiungere generazioni che possano percepire l’impatto della Storia.

Ogni opera, incluso questo racconto, è un calco della vita che eternamente fluisce. Ogni creazione è come Eržan, cristallizzata nel suo sviluppo e fissata nella narrazione.

di Andrea Pagano