“La Forma dell’Acqua” di Guillermo del Toro
Del Toro questa volta ci sorprende più delle altre, a mio avviso, decidendo di raccontare e rappresentare con mano da maestro del cinema e da poeta una storia d’amore impossibile ma, forse, inevitabile, in uno scenario apocalittico e contorto come quello della Guerra Fredda.
Durante un delicatissimo periodo di transizione nel quale il competitivismo sfrenato tra Usa e Urss lacerava il tessuto sociale lasciando gli uomini sprovvisti di nuovi valori cui affidarsi visto che i vecchi cedevano sotto il peso dell’avvento della società di massa, scocca la scintilla di un amore travolgente che trascende i limiti del reale rendendo possibile credere negli amori delle fiabe.
Siamo nel 1962, in Unione sovietica il leader è Chruscev, negli Usa invece è l’amministrazione del democratico Kennedy a pianificare le strategie per vincere la Guerra Fredda. A Baltimora, in un laboratorio americano lavora Elisa, orfana e muta, come donna delle pulizie. Una misterosa creatura marina viene però portata nel laboratorio all’interno di un misterioso cilindro metallico e con esso arriva il colonnello Strickland; le sue idee e la sua caparbia volontà di affermarsi nel futuro dell’America, ammorbano l’atmosfera del laboratorio di tensione e minaccia.
Non è possibile dire di più sulla trama a mio avviso: se raccontarla è impossibile, guardare il film è più che necessario. Chi ama del Toro, non può che ritrovare la sua mano incredibile, i suoi movimenti di macchina, le incredibili invenzioni visive, la disumanità dell’uomo e l’umanità dei mostri che Guillermo ama da impazzire; ma non solo, perchè in questo capolavoro quello che il regista messicano riesce a condensare in due ore di film è straordinario. Bello quanto il Labirinto del fauno, se non di più, La forma dell’acqua con il primo condivide un contesto storico simile (Labirinto del fauno ambientato nel 1944) nel quale una storia di amore e odio viene raccontata. Nella Forma dell’acqua però (premio Oscar per il miglior film, miglior regia, migliore colonna sonora e migliore scenografia) c’è qualcosa di grande che entra nell’animo quando lo si guarda e che lascia stupefatti sia durante la visione che dopo, e questo accade solo quando l’impalpabile materia artistica si condensa grazie all’artista in una forma che la esprima alla perfezione. Inutile dire che un risultato del genere sia molto difficile da ottenere e per questo, non abituati a gusti così raffinati, i palati degli spettatori ( parlo di spettatori profani, non critici cinematografici) si trovano spaesati. È bellissimo, ma non riesco a decodificare quello che mi ha comunicato; ecco quello che si potrebbe sentir dire dopo aver visto qualcosa di raramente bello. O almeno, questo è quello che è successo a me.
Ora proverò a dare il mio contributo scrivendo cosa ha rappresentato per me la visione del film, provando a sciogliere qualche nodo interpretativo senza ovviamente anticipare niente.
Scrivevo, riguardo alla trama, che la protagonista del film si chiama Elisa, lavora come donna delle pulizie in un laboratorio americano a Baltimora, è muta e orfana. Lei è quella che la società del periodo etichetta come diversa, e gli amici che le ruotano attorno sono esclusi dal consorzio umano tanto quanto lei: un sessantenne omosessuale che ha vissuto in solitudine tutta la vita, un’amica di colore che cerca la sua indipendenza al lavoro e in famiglia, il mostro marino. Loro, se non si fosse capito, sono i buoni. Se ora passassi a scrivere dei cattivi passerebbe l’idea che il film presenta una semplicistica visione manichea della società, visione dalla quale non può che conseguire una critica sociale e politica forse un po’ scipita. Tutt’altro. Il contrasto tra bene e male è sì netto in questo film, ma è necessario inserire il tutto nel contesto della Guerra Fredda dove il comunismo sovietico e il capitalismo americano lottavano per guadagnare il favore mondiale e tutto era volto a ottimizzare i risultati, tutto era una facciata, spesso e volentieri. Quindi, dicevo, in questo roboante contesto di follia competitiva per Del Toro i buoni sono gli ultimi, i diversi, gli esclusi e perché no, i deboli, ma non solo, sono anche quelli che si indignano di fronte alle ingiustizie sociali, sono quelli che non abbassano la testa, coloro che resistono assieme grazie all’amicizia e all’amore, valori inestirpabili nelle anime incorruttibili; e proprio perché sono gli ultimi a esercitare questa forte resistenza, le corde emotive vibrano sinceramente quando Elisa, infuriata per la passività del vecchio amico gli mima con le mani: Noi siamo niente se non facciamo niente. Questa lunga digressione per dire che, quella che può sembrare una semplificazione morale, in realtà non lo è affatto se opportunamente contestualizzata. Infatti il generale americano responsabile del progetto nel laboratorio e il colonnello che risponde agli ordini del generale (della serie c’è sempre un pesce più grande, perché è chiaro che a sua volta il generale subirà pressioni esercitate dall’alto e sarà quindi ben lieto di sfogare liberamente il potere su chi può) sono tanto spregiudicati quanto paiono conformi ai nuovi diktat imposti dai protocolli e dalle dottrine americane del competitivismo, del contenimento globale e della superpotenza americana. Nel film, così come nella Storia del resto, i russi rispondevano a dinamiche competitive simili.
Non ci interessa imparare, ci interessa che gli americani non imparino
ecco come Del Toro, autore anche della sceneggiatura del film, sintetizza perfettamente l’affannosa ricerca del comunismo sovietico di compensare i numerosi gap che li separavano dagli americani, motivo per cui spendevano più per bloccare le trasmissioni degli americani piuttosto che per diffondere le loro. Del Toro, dicevo, costruisce efficacemente l’atmosfera di bipolarismo imperfetto (Usa /Urss) che faceva soffrire d’ansia il mondo in quel periodo non risparmiando né gli uni né gli altri. I protagonisti del film incarnano infatti le contraddizioni e le violazioni dei diritti umani e civili che le ragioni della guerra fredda si lasciavano alle spalle portando avanti solo il carro dei vincitori: omosessualità, discriminazione razziale in un regime non dissimile da quello dell’apartheid, disprezzo per chi è diverso o per chi non ricopre un ruolo sociale ritenuto di rilievo o gratificante, e poi, la grandissima abilità del regista di focalizzare l’attenzione sulla difficoltà di stare al passo con gli impetuosi ritmi della modernizzazione e con le nuove esigenze della società dei consumi. In ultima analisi, quello che il film denuncia è un totalitarismo ambiguo e subdolo, perché amico di chi serve al sistema in quanto utile e performante produttore ma killer insensibile dell’uguaglianza sociale; la spregiudicatezza di una società che ruota intorno a ideali come l’incasellamento sociale reso evidente da oggetti che sono lo status symbol dell’uomo americano lanciato nel futuro come le macchine risplendenti di cromature, o la filosofia del pensiero positivo, la mascolinità dell’uomo brutale che ottiene ciò che vuole e risolve i problemi, e proprio per questo merito comanda l’assurda hybris e, in linea con la certezza della supremazia bianca, la brutalità espressa apertis verbis dal colonnello Strickland in faccia all’inserviente di colore sull’immagine di dio:
Un po’ più simile a me che a te.
Esistere, per il colonnello Strickland, vuol dire essere degno della società americana in cui vive, esser meritevole di avere gli status symbols che questa offre per aver “risolto i problemi” e se questo però non dovesse accadere allora, il colonnello semplicemente smetterebbe di esistere, sarebbe come se non fosse mai esistito, mai stato creato, ecco, proprio Creato, dice il generale, il pesce più grande a Strickland, assimilando a un’ assurda volontà creazionistica le ragioni della società americana degli Anni ’60.
Esistere per Elisa vuol dire essere amata per quello che è. Il contrappunto che Del Toro sapientemente genera accostando questi due mondi in contrasto tra di loro è efficace e dirompente, il gioco degli opposti nel film ha lo scopo di illuminare e dissacrare ironizzando le rigide e asfissianti norme che ammorbano l’organizzazione della società; e piano piano si alzano in volo la libertà di relazionarsi e innamorarsi del diverso, di sprecare l’acqua, laddove questo è proibito da chi proibisce la libertà, la follia di avere il coraggio di cambiare la propria vita da un giorno all’altro facendo sentire la sua voce. La forma dell’acqua è una vorticosa esperienza di emozioni dove la complessità della Storia e la contorta violenza della discriminazione sociale si oppongono alla semplicità dell’amicizia e all’ imprevedibile necessità dell’amore, che non può essere fermato, non può essere regolato o arginato, perché non può che esistere per espandersi tumultuosamente in ogni dove, simile a un panteismo romantico che si diffonde nel mondo vivificandolo, come acqua che sgorga perpetua.