Federica Nardiello
pubblicato 2 anni fa in Letteratura

“La frontiera dei cani” – il reportage letterario di Marie-Luise Scherer

“La frontiera dei cani” – il reportage letterario di Marie-Luise Scherer

Se si cercano informazioni in rete sul confine tra Germania Est e Germania Ovest – per esempio su Wikipedia – si trova un piccolo paragrafetto intitolato “La zona vietata”: Sperrgebiet o Sperrzone in tedesco, si tratta di un pezzo di terra largo cinque chilometri e lungo tutto il confine che divideva la DDR dall’Occidente libero; «i tedeschi dai tedeschi». Al fatto che lungo questa linea ci fossero dei cani a fare da guardia vengono dedicate appena un paio di righe. In un reportage che oscilla tra new journalism e non-fiction è Marie-Luise Scherer a dargli spazio. Pubblicato per la prima volta sulla rivista «Der Spiegel» nel 1994, il libro è stato ripubblicato per Keller nel 2014, tradotto da Anna Ruchat con la collaborazione delle studentesse delle Fondazione Milano Lingue Cristina Galimberti, Anna Claudia Iacopini, Noemi Lattaruolo e Federica Tortiello.

Per “frontiera dei cani” s’intende la striscia di morte, disseminata di torrette di osservazione e campi minati, all’interno della zona vietata lungo la recinzione scaglionata […] in cui c’erano quasi solo cani. I cani, legati a un sistema di guinzagli, vivevano nel più completo isolamento e correvano sotto al sole cocente e nel gelo più totale, su e giù per l’intero tracciato, fino a impazzire del tutto.

Saranno proprio i cani i protagonisti di questo territorio, punto di incontro di uomini plasmati da una mentalità interventista, fatta di «segregazione, reclusione, sorveglianza, oppressione e una nauseante atmosfera piccolo borghese», che – inevitabilmente – li porterà a gestire piccoli traffici illegali nascosti e a raccontare quel lato umano che il comunismo ha soffocato.

Marie-Luise Scherer è riuscita a raccontare quel lato, andando oltre una narrazione dottrinale e didascalica del resoconto.

La struttura del reportage è singolare: il primo scenario è quello di una famiglia – gli Herbig – un uomo e una donna che vogliono acquistare un cane di grossa taglia per tenere alla larga persone indesiderate, soprattutto venditori ambulanti, dalla loro casa; il Muro è ormai caduto e l’occidentalizzazione, lentamente, sta valicando ogni confine. Grazie all’annuncio sul «Schweriner Zeitung» – giornale dell’odierna capitale del Land Meclemburgo-Pomerania Anteriore – gli Herbig hanno scoperto che sono disponibili alcuni cani rimasti al comando Nord delle truppe di confine. Solo una volta giunti a Schlutup/Selmsdorf (ex frontiera nei pressi di Lubecca) la coppia ha potuto osservare con i propri occhi la situazione aberrante e disumana di un ambiente militare.

Nel primo viottolo i pastori tedeschi Amor, Muck e Brando saltavano sulla rete metallica della recinzione. […] Non si erano ancora rassegnati alla perdita dei loro padroni, soldati tornati in città che non si sarebbero più serviti di loro.

La scrittrice mette in risalto il lato emotivo di questi cani, il senso di abbandono, la necessità di trovare una casa in cui ricevere amore. Ma la maggior parte di loro – soprattutto pastori tedeschi, considerati superiori alle altre razze – spaventarono gli Herbig. Non suscitarono gioia e compassione, e nemmeno pietà. Solo paura. Erano colossi che all’epoca avevano il compito di sorvegliare un deposito di munizioni, legati a un guinzaglio scorrevole, in una zona senza ombra né acqua; esposti alle intemperie, lasciati soli. Inconcepibile considerarli animali che hanno bisogno di cure. Se non avessero sentito il guaito di Alf, gli Herbig se ne sarebbero tornati a casa senza cane.

Nel corso della narrazione – che da questo momento fa diversi salti nel passato, a quando quei cani non cercavano casa, ma difendevano il confine ed erano oggetto di scambi e traffici spesso clandestini – Alf rimane uno dei protagonisti, vittima di un sistema che l’ha reso inviso e amabile allo stesso tempo: un cane diverso, non solo per il suo aspetto festoso e il muso biondo, ma anche per il temperamento pacifico, ingenuo e addomesticato. Gli verrà affidato il numero di matricola A-0441, dove la lettera richiama l’appartenenza a un determinato tracciato e i numeri corrispondono a «caratteristiche di scarsa intelligenza, sensibilità, spregiudicatezza e sufficiente resistenza». Un dato emblematico per sottolineare la sottomissione dei cani al regime totalitario, indipendentemente dalle loro personalità, la volontà di inselvatichirli il più possibile, di allontanarli dalla posizione privilegiata di animale domestico per renderli meri strumenti dello Stato. Ancora di più in determinate situazioni:

Le cagne gravide abbassavano il potenziale di guardia. Alla fine della gravidanza non volevano far altro che dormire […] Quindi per far sì che il loro servizio non venisse meno a causa del puerperio, c’era l’ordine di uccidere i piccoli […] Schoschies si rallegrava in segreto per tutti i cani del tracciato che avevano smesso di essere amici dell’uomo, che riconoscevano la solitudine come una condizione inevitabile.

Non esiste dunque umanità – e nemmeno antispecismo – quando prevale la logica della supremazia. Se gli animali dovevano essere incrudeliti, gli esseri umani dovevano esserlo a loro volta, ancora di più.

Quasi tutti gli uomini del reportage ricoprono mansioni militari, sono guardie speciali di confine o ingegneri veterinari, specializzati nel reclutamento di cani di servizio e di guardia. Non vogliono instaurare un rapporto con l’animale perché stanno solo lavorando. Attorno a loro gravitano, tuttavia, oltre alle guardie di confine volontarie, anche stallieri, allevatori e mungitori che fungono da primo anello della catena degli scambi veri e propri, intermediari segreti, le cui azioni avrebbero potuto rappresentare un atto estremo contro lo Stato. Originale come la Scherer accosti due personalità in particolare: Moldt e Tews. Il primo rientra in quella categoria di soldati che si serve dei cani solamente come armi: «Quando avevi dei compagni di viaggio come loro potevi risparmiarti le munizioni. In trent’anni Moldt non utilizzò mai l’arma. I cani afferravano la parte del corpo che sporgeva di più, di solito un braccio, e lo lasciavano solo al fischio». Oggi Moldt apprezza anche cani «che sanno giocare», ma il rispetto che in precedenza aveva conquistato si fondava sul loro mero utilizzo affinché si rendessero invalicabili i confini della Repubblica.

Proprio come Alf, Tews incarna invece il simbolo dell’osservatore esterno succube di una situazione che non ha scelto e di cui è vittima. A causa della “Operazione Parassiti” – secondo cui i cittadini residenti sulla striscia di confine dovevano essere esiliati altrove – Tews si ritrovò a vivere in una casa, il cui giardino «confinava direttamente con la striscia di controllo sterrata». Questa posizione gli ha permesso di osservare i cani del confine, conoscerne le sofferenze, le sfumature di infelicità, i gesti, la solitudine; patire il momento dell’abbandono, quando la speranza del ritorno del padrone è ancora viva; confrontare questi cani con quelli che invece gioivano del fatto che il guinzaglio corresse lungo il cavo e non rimanesse immobile. Conoscerli fino a far di quei cani compagni quotidiani. Senza, però, invalidare la propria inettitudine e agire in loro aiuto.

In fin dei conti si tratta di una mancata libertà sociale, fenomeno che parte dallo Stato, arriva agli uomini e alla fine ai cani, in ordine di oppressore e oppresso. Ma si tratta anche di tirar fuori, da questi anelli, l’ernia dell’umanità, che dopotutto persiste. Certamente Scherer porta alla luce in questo reportage una versione della DDR inedita o comunque poco conosciuta, ma una versione in cui, inevitabilmente, a stare al guinzaglio non sono solo i cani.