La memoria cancellata
"Il confine dell’oblio" di Sergej Lebedev
E noi? Noi non possiamo giudicare il passato che dalle testimonianze che lo riguardano e che esso stesso ha conservato. Il passato è l’unico a poterci raccontare di sé. Solo che, non essendo scevro da lacune e contraddizioni, ci impone di cercare la verità celata al suo interno. Più che di parole il suo racconto è fatto di lunghi silenzi, di vuoto.
Tanto per concludere questo mese di gennaio con la giusta dose di frizzante e sempiterna tristesse, oggi vorrei parlarvi del romanzo d’esordio di Sergej Lebedev Il confine dell’oblio (Predel zabvenija, scritto nel 2011 e pubblicato da Keller editore nel 2018 con la traduzione di Rosa Mauro).
Attraverso il racconto dei ricordi della sua infanzia, Lebedev (o l’anonimo protagonista che identifichiamo con la voce dell’autore) ci accompagna nel suo personale «viaggio nella vertigine» fra i paesaggi sperduti del Circolo polare e il Nord siberiano.
Sono qui, fermo su questa linea apparentemente valicabile, ma per farlo bisognerebbe avere il cuore leggero e l’anima sgombra, mentre il mio cuore e la mia anima sono colmi della memoria degli spazi che si allungano verso il circolo polare, del loro mutismo che patisce le parole, del candore delle nevi che divorano gli occhi, quelli di una foglia incontaminata […]
Questo romanzo è molte cose. È un romanzo circolare. È un romanzo sulla Storia, sulla memoria individuale che diventa specchio di quella collettiva. O forse sarebbe meglio dire che è un romanzo sul tentativo di recupero della memoria. È anche un romanzo sulla storia di un bambino e del suo rapporto con un vecchio che lui chiama Nonno Due.
Il protagonista, giunto al limite del mondo, ripercorre i sentieri dei propri ricordi per cercare di ricostruire la vita di quel vecchio così tanto legata alla sua.
L’anziano è una figura particolare: non è un suo parente ma solo un vicino di dača. I suoi occhi ciechi sembrano nascondere un mistero depositato ormai nel passato.
Nonno Due non s’imprimeva nella retina di chi l’osservava, vi passava attraverso, lasciando un’immagine indefinita. Ne rammentavi più il profilo che la faccia, sembrava sempre girato di lato; nascosto tra la folla anche se era da solo. Forse se ne ricordavano gli abiti, la curva delle spalle, qualcosa nella camminata, ma era impossibile ricavarne un ritratto completo.
Così come la figura di Nonno Due lascia un segno solo di contorno, allo stesso modo egli vive. Conosce la vita toccando e sfiorando gli oggetti lungo i bordi. Ogni cambiamento, persino il minimo spostamento per altri irrilevante o del tutto trascurabile, significa per lui una nuova calibratura dei suoi altri quattro sensi.
Rispetto a tutte le altre persone che abitano le dače, egli è l’unico che pare avere un legame del tutto particolare con il passato di cui però tace qualsiasi dettaglio. Sembra aver stretto un tacito accordo con i genitori del protagonista che non gli fanno mai domande, al contrario, cercano il più possibile di relegare il passato, anche il loro, in un luogo sicuro e lontano da occhi indiscreti:
In fin dei conti, era questo che li accomunava: essere riusciti a venire fuori da tempi non facili come persone ammodo, vale a dire come individui dei quali per ragioni varie non si sarebbe detto nulla di sconveniente.
Nonno Due vive come un uomo senza passato e si fa scudo con la sua cecità per nascondere le atroci vicende che lo hanno visto protagonista, non tanto perché vivesse nel rimorso quanto perché celare il passato è l’unico modo per lui di continuare a vivere. Non che il passato non emergesse dalle sue parole, ma è un passato filtrato, accuratamente depurato e talmente generale e anonimo da risultare inventato.
Nonostante la continua ricerca di oblio, la memoria rimane ancorata alle cose. Una sorta di panteismo laico penetra negli oggetti nei quali sembra insito una sorta di spirito del mondo che vive anche nel linguaggio. Il romanzo è costruito su frammenti di ricordi che riemergono dalle sabbie mobili del tempo. La persistenza del passato, che tanto penetra il presente, si manifesta in continue reminiscenze dal sapore proustiano:
Realizzai che a contare non è la prova o la sua conservazione letterale, da museo, bensì il fatto che su oggetti apparentemente inanimati – strumenti o semplici testimoni di sofferenze e angosce – si depositi un riflesso terribile. Essi acquisiscono una seconda esistenza, una sorta di voce: l’anima di un evento, la quintessenza della sua provvidenziale importanza, si alloca nella cosa e ci parla.
Il destino del protagonista è fin da subito legato indissolubilmente a quello di Nonno Due: è solo grazie a lui, infatti, che il ragazzo viene fatto nascere. I dottori avevano avvertito i genitori che il parto sarebbe stato molto rischioso e che avrebbe potuto costare la vita alla madre o al piccolo. Alla decisione di non portare a termine la gravidanza, il vecchio inizia la sua personale e persuasiva lotta per far vedere la luce al bambino.
Lungi dall’essere un surrogato dei nonni, Nonno Due è visto come una specie di orco delle fiabe e, più che rispetto, incute sincero terrore. Sin da piccolo il protagonista percepisce uno strano sentimento che muove il vecchio: ogni suo gesto sembra finalizzato a impossessarsi di lui.
Aveva atteso i miei sette anni per avanzare i propri diritti su di me.
L’evento scatenante e rivelatore dei piani dell’anziano è legato al taglio dei capelli del bambino. Per qualche strano e fino a quel momento ignaro motivo, Nonno Due è sempre stato ossessionato dal taglio dei capelli e, quando il piccolo si becca i pidocchi, trova finalmente la sua occasione per prendere in mano le forbici e dare un taglio alla chioma tanto odiata. La vicenda però arriva a sfiorare la tragedia perché il bambino, in preda al panico, scappa e viene ritrovato esanime dopo aver sbattuto la testa su una roccia. Si lanciano tutti alla sua ricerca, Nonno Due si assume tutta la colpa:
era spaventato a tal punto da far pensare che avesse già proposto lo stesso trattamento per chissà quale altro ragazzino che poi era incorso in una disgrazia.
La reazione del vecchio, preoccupato per la prima volta per un altro essere umano, sembra in realtà solo un transfert. Nonno Due si adopera per ritrovare il piccolo non perché mosso dai suoi sentimenti nei confronti del quasi nipote, ma perché appare chiaro come egli avesse già sperimentato un episodio simile. Veniamo infatti a scoprire che, in quel suo passato chiuso a chiave in remoti cassetti, aveva avuto una moglie e un figlio.
Quello che il protagonista considera un rapporto mortifero e separato dal mondo dei viventi, risulta in realtà tutto rivolto alla vita. È la vita del piccolo che sta a cuore a Nonno Due. Egli vuole fare di lui una copia di quel figlio che ha disatteso le sue aspettative e disobbedito i suoi ordini. Vuole salvare e redimere il figlio che si è scelto non nel tentativo di espiare le sue colpe ma per far rivivere in lui lo spirito del figlio perduto.
Amare Nonno Due risulta impossibile. Le sue azioni sono permeate dalla paura: sia da quella che incute negli altri che da quella che egli nutre nei confronti di sé stesso. Paura che i suoi disegni possano non realizzarsi, che le mire che ha sul bambino non portino all’attuazione dei suoi piani.
Appare chiaro che Nonno Due non abbia fatto la guerra ma si sia certamente macchiato di azioni atroci e indicibili ed è per questo che gli adulti della famiglia non lo interrogano mai sul suo passato, sembrano anzi contenti dell’alone di mistero che lo avvolge. Certe questioni è meglio non farle venire a galla:
I tempi di cui avrebbe potuto parlare erano gli stessi che loro tentavano, se non di dimenticare, quantomeno di ridurre a minimi ricordi individuali, spezzettandoli in sensazioni personali ed episodi privati […].
Ciascun individuo si guarda bene dal rivelare il terribile passato vissuto o agito, costringendo i ricordi nel tranquillo e sicuro spazio della memoria personale, selettiva e di convenienza. Nessuno di loro ricorda per tutti.
Un passato alla stregua di chiavi, portafogli e documenti da distribuire nelle tasche prima di uscire di casa. Poco ingombrante e inoffensivo.
La capacità di ricordare, atrofizzata dalla paura stessa del ricordo, è paralizzata. Tutti i personaggi che il protagonista incrocia hanno imparato a vivere nel silenzio, protetti dallo spesso manto di neve che copre le cose e le tiene nascoste.
Il controllo di Nonno Due sul ragazzino raggiunge la sua completa attuazione quando si offre di donare il suo sangue per una trasfusione e salvare così il piccolo dopo il morso di un cane. È l’estate del 1991 e tutto quel castello di carte made in Urss sta crollando. Nonno Due muore portando con sé i suoi segreti personali che coincidono con quelli universali. La Storia, quella che gli adulti volevano tenere nascosta, irrompe prepotentemente con i carri armati che sfilano per le strade. L’epoca di Nonno Due, e di tutti quelli che in quell’epoca ci avevano sguazzato, volge al termine. Il vecchio rimane perciò relegato al passato, al suo passato, quello che tutti vogliono lasciare taciuto, nella nebbia fumosa dell’oblio. Se ne va così come aveva vissuto metà della sua vita: nell’ombra silenziosa dell’anonimato.
Il sacrificio di Nonno Due rappresenta un vincolo eterno. Il suo sangue di vecchio comincia a circolare e a mischiarsi con quello del bambino. Rimane pertanto legato indissolubilmente a lui, qualsiasi cosa egli abbia commesso nel suo passato. Come l’ulivo e l’olivastro, Nonno Due si è innestato nel bambino per sempre.
Il protagonista, ormai trentasettenne e di professione geologo, si reca negli angoli più remoti del mondo alla ricerca del passato di Nonno Due, dopo aver trovato delle vecchie lettere. Giunge quindi in una cittadina ai confini del mondo il cui toponimo coincide con quello di un eroe bolscevico degli anni Trenta: uno spazio eterotopico che si regge sul lavoro di una cava e di una miniera e che conserva ancora il passato sovietico. È proprio qui che migliaia di persone hanno trovato la morte nei campi di lavoro ed è proprio qui che il protagonista prende coscienza della fredda e disumanizzata pianificazione del lager:
Vidi l’ambiente catastrofico creato da un campo di lavoro, organizzato in maniera tale che non vi si riconoscesse il male.
La terra russa appare in tutta la sua forte debolezza. Una terra insanguinata sulla quale le cicatrici delle passate ferite inferte dall’uomo faticano a guarire, dalle cui vestigia continua a sgorgare il sangue dei detenuti che lì hanno trovato la morte. La natura è presentata così com’è, non umanizzata come spesso accade ma vista come la descrive Leopardi nel Dialogo della Natura e di un islandese: feroce, impassibile e per noi insensata:
Mi fu chiara la scelta di deportare nella taiga e nella tundra: in questo modo le persone venivano estirpate dalla comunità, estromesse dalla Storia; la loro morte non avveniva nella Storia, ma nella geografia.
La natura, tuttavia, diventa testimone involontario della violenza dell’uomo, si fa archivio della memoria delle violenze del gulag, porta su di sé la testimonianza rimossa dell’impronta mostruosa dei campi:
Quella terra era infestata da un fungo, il fungo della sentinella; le recinzioni, il filo spinato, i pali, erano come un unico urlo secolare: fermo o sparo!.
In quell’arcipelago gulag situato nel Nord siberiano, le vite delle vittime e quelle dei carnefici si intrecciano. La prigione del tempo in cui Nonno Due credeva di aver rinchiuso il suo passato è dunque ben lontana dall’essere chiusa per sempre. Il fiore della verità cresce dappertutto, anche in una waste land alla fine del mondo.
Il confine dell’oblio si va a inserire in quella lagernaja literatura inaugurata da Solženicyn e portata avanti dalle opere di autori quali Šalamov e Ginzburg.
È, quello di Lebedev, un cammino à rebours in quegli inferi che sono stati i gulag, uno sprofondamento verso l’orrore visto però come costante ricerca e inseguimento della verità. A prendere per mano il lettore è la parola, unico e ultimo baluardo in grado di preservare la memoria, sia essa individuale che collettiva. La parola diventa una medicina che cura tanto il ricordo quanto la terra martoriata dalla mano superba e spietata dell’essere umano. La trasfusione di sangue da Nonno Due al bambino è metafora di quella memoria contaminata e spuria che persiste nel presente. Il racconto del passato è affidato alla terza generazione dei viventi, testimoni indiretti della Storia. La parola si fa custode del ricordo, in particolare di quel ricordo taciuto da una intera nazione, di quella memoria cancellata per rimozione forzata. Chi critica questo romanzo perché non vi ritrova la vera Russia attuale forse dimentica che il presente si fonda sulle impronte del passato.