La paura ha un volto ed è quello di Thomas Ligotti
una riflessione sulla natura umana
Perché la morte ci fa ancora paura? Anche il filosofo norvegese Zapffe si pose questa domanda e giunse alla conclusione che l’umanità è tormentata da un panico cosmico generato dalla coscienza che ci svela quanto sia terribile essere vivi. Molte persone sviluppano una serie di strategie per minimizzare tale minaccia: alcuni isolano tutti i pensieri negativi, altri si àncorano a modelli trascendentali, altri ancora, invece, si distraggono, idealizzano, sublimano la tragicità della vita attraverso la produzione artistica. È una distrazione più sofisticata che provoca piacere estetico.
Tuttavia, affermare che la salvezza della specie umana risieda nella morte è decisamente paradossale. Infatti, secondo Zapffe, l’unica soluzione sembrerebbe dare un taglio allo stimolo riproduttivo. Questa concezione è alla base del pensiero nichilista e delle visioni antinataliste. In Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (Carbonio editore, traduzione di Alberto Cristofori), David Benatar si domanda perché nasciamo se la vita ci pone di fronte sofferenze alle quali non è possibile porre rimedio, angosce che non si possono controllare o dolori ai quali, biologicamente, non ci si può sottrarre. In buona sostanza, Benatar fonda la sua tesi sul fatto che la vita umana è male. Stando ai suoi ragionamenti, sarebbe meglio non essere mai nati, oppure si dovrebbe considerare l’ipotesi secondo cui la prevenzione di rapporti procreativi sarebbe l’unica scelta razionale affinché un individuo non nasca e, di conseguenza, non soffra.
È un approccio questo che richiama la definizione di “pessimismo cosmico” di Eugene Thacker racchiusa nel saggio Tra le ceneri di questo pianeta (Produzioni Nero, traduzione di Claudio Kulesco), dove sottolinea la consapevolezza dell’essere umano di abitare in un mondo impensabile, un mondo non-umano che è quello dei cataclismi che minacciano la nostra esistenza: «l’impossibile pensiero dell’estinzione, in cui non rimane neanche un singolo essere umano a pensare l’assenza di esseri umani, neanche un pensiero a pensare la negazione del pensiero tutto. Ecco un altro possibile significato per la parola «nero»: nero = cosmico. O meglio, nero = pessimismo cosmico».
Alcuni pensatori, invece, hanno virato verso un discorso di tipo cibernetico, come Thomas Metzinger, filosofo della mente tedesco, secondo cui la svolta per l’umanità risiede nell’essere meccanico dotato di super intelligenza in grado di minimizzare sentimenti dolorosi o sofferenze che le creature biologiche non sono capaci di rimuovere. D’altra parte, afferma il filosofo tedesco «conceptually, [the superintelligence] knows that no entity can suffer from its own non-existence». In questo modo, la non-esistenza robotica porta solamente effetti positivi a coloro che abitano questo pianeta. Ricordiamo che nel 1950 Alan Turing con il test d’intelligenza artificiale fonda le basi per una riflessione che avrebbe accompagnato i decenni successivi: la dicotomia fra l’umano e il computazionale, quella che ci fa domandare se una macchina artificiale continua a essere una macchina o un essere senziente come l’uomo. Quest’ambiguità provoca sensazioni terrificanti nei confronti del perturbante (das Unheimliche) freudiano che si materializza attraverso la tecnologia. Così, ci si trova di fronte un essere fabbricato che perturba la concezione del familiare e del reale. In certi automi si incarnano dunque lo sguardo e i tratti antropici, tanto che alcuni vengono considerati umani a tutti gli effetti: queste creature riflettono una condizione distorsionata dell’altro, un essere familiare, ma allo stesso tempo disumanizzato, difettoso, incompleto e in crisi di identità.
Ispirato da questo scenario, Thomas Ligotti, autore tra gli altri de La cospirazione contro la razza umana (il Saggiatore, traduzione di Luca Fusari), definito dal «Washington Post» «il segreto meglio custodito» della letteratura horror contemporanea, elabora una narrativa in cui la destabilizzazione emozionale avviene quando il genere umano realizza che per sua natura scompare e il suo corpo si consuma fino a convertirsi in polvere. Ligotti forse direbbe che la vita è priva di senso e inutile, in quanto possiamo percepire il corpo in decadenza, sappiamo che siamo un’esistenza che prova dolore e che di fatto cesseremo di esistere.
Da questa inutilità, Ligotti architetta l’idea di una figura artificiale, una rappresentazione della specie umana simulata e fabbricata che viola le leggi fisiche e naturali. Un personaggio inorganico che provoca sensazioni allarmanti per il fatto di essere metafora dell’esistenza umana, come spaventapasseri, enormi manichini, bambole e marionette che simbolizzano la pietrificazione, la rovina, la non esistenza della condizione umana.
Nei racconti di Ligotti si incontrano esseri che non soffrono, come in L’ombra, l’oscurità, dove il protagonista Grossvogel rivolge durante la sua mostra un discorso ai presenti sull’insensatezza dell’esistenza. L’artista distingue il mondo dei corpi umani da quello dei non umani: nel primo il corpo è soggetto a dolori e disturbi che debilitano gli organi e, quindi, acquisisce consapevolezza di che cos’è un corpo e il suo funzionamento; il secondo, invece, «non ha alcun bisogno di soffrire, rincorrendo desideri falsi e irreali, perché tali sentimenti non hanno rilevanza per quei corpi e mai nascono in essi».
Questo racconto mi ha fatto tornare in mente la serie True Detective (2014), profondamente ispirata alla filosofia pessimista di Ligotti, tanto che Jon Padgett, fondatore del “Thomas Ligotti Online”, accusò di plagio Nic Pizzolatto, sceneggiatore e regista della prima stagione, per aver rispecchiato esplicitamente alcuni contenuti e dialoghi presenti in La cospirazione contro la razza umana. Anche Rust Cohle matura una visione dell’esistenza che oscilla fra paura di vivere e autoannientamento, dal momento che la vera tragedia dell’umanità risiede nella consapevolezza della sofferenza e del dolore.
L’unica strada che percorre Rust è quella dell’oscurità, di un cielo privo di stelle dove l’essere umano è come una marionetta attaccata a fili ingarbugliati che, recisi, cadono. «Una volta c’era solo oscurità. Adesso la luce sta vincendo», risponde Rust al collega Martin Hart nel parcheggio dell’ospedale in cui è ricoverato. Ed è la stessa oscurità nella quale si muovono i personaggi dei racconti di Ligotti. Un esempio è La voce nelle ossa, nel quale il protagonista si aggira nei meandri di un edificio sommerso dall’oscurità: un sottosuolo fatto di argilla, freddo e scivoloso, formato da corridoi e stanze con pareti umide. L’aria è putrida e disgustosa, simile a quella di una fossa comune. Si osservano ombre che deformano oggetti, si sentono voci acute e spezzate, echi confusi che smuovono la coscienza. L’individuo capisce che è lui stesso un paradosso, realizza che è un essere pieno di dolori e che un giorno cesserà di vivere. In questo senso, diventa filosofo di sé stesso poiché matura un dialogo interiore attraverso il quale ascoltare la propria coscienza infernale. Questa è la vera tragedia dell’esistenza umana, ci assicura Ligotti, una coscienza che dissotterra orrori e rivela il proprio destino. Così, avviene la trasformazione dell’essere senziente che si annulla per lasciare spazio al nulla e all’insignificanza: si fa interprete del concetto di non esistenza.
di Simone Marino