Federico Musardo
pubblicato 5 anni fa in Altro

È funesto a chi nasce il dì natale

“Meglio non essere mai nati” di David Benatar

È funesto a chi nasce il dì natale

Una vita piena di bene e contenente solo una minima quantità di male – una vita di completa felicità segnata solo dal dolore di un’unica puntura di spillo – è peggio che non vivere affatto (p.59).

Che venire al mondo sia un male è una conclusione dura da accettare per la maggior parte delle persone. Molti sono felici di essere nati perché si godono la vita. Ma queste valutazioni sono errate precisamente per le ragioni che ho evidenziato. Il fatto che uno si goda la vita non rende la sua esistenza migliore della non esistenza, perché se quella persona non fosse venuta al mondo non ci sarebbe stato nessuno a sentire la mancanza della gioia di condurre quella vita e quindi la mancanza di gioia non sarebbe stata un male (p.69).

L’argomento che è meglio non venire al mondo spiega perché è assurdo anche cominciare una vita per i piaceri intrinseci che quella vita avrà in sé. La ragione di questo è che anche i piaceri intrinseci dell’esistenza non costituiscono un vantaggio netto rispetto alla non esistenza. Una volta vivi, è bello provarli, ma sono pagati a prezzo della disgrazia della vita – un costo assai considerevole (p.84).

La mancanza di beni non è un male se non c’è nessuno che viene deprivato a causa della loro assenza (p.196).

Meglio non essere mai nati. Il dolore di venire al mondo (Better Never to Have Been: the Harm of Coming into Existence, 2006), del filosofo sudafricano David Benatar, tradotto pochi mesi fa da Alberto Cristofori per Carbonio Editore, è un libro davvero interessante per più di una ragione. L’autore, anche se non adotta un punto di vista letterario o religioso, si inserisce in una tradizione millenaria di antinatalisti (i natalisti sono di più, naturalmente, anche perché figliano): venire al mondo è sempre un male. Leopardi, Schopenhauer (felicità soltanto come temporanea mancanza di sofferenza), Cioran sono soltanto alcuni tra i pensatori moderni che, da altre prospettive, condivisero lo stesso pensiero. A dispetto di ciò che si potrebbe pensare se si conosce un po’ l’escatologia biblica, sia Geremia che Giobbe non sembravano granché felici di stare al mondo:

Maledetto il giorno in cui nacqui; il giorno in cui mia madre mi diede

alla luce non sia mai benedetto. Maledetto l’uomo (che) non mi fece

morire nel grembo materno; mia madre sarebbe stata la mia tomba e il

suo grembo gravido per sempre. Perché mai sono uscito dal seno materno

per vedere tormenti e dolore? (Geremia 20, 14-18)

E Giobbe parlò e disse: “Perisca il giorno in cui nacqui e la notte in cui

si disse: ‘È stato concepito un uomo!’ Quel giorno sia tenebra… Quella

notte se la prenda l’oscurità… perché non mi ha chiuso il varco del

grembo materno… Perché non sono morto fin dal seno di mia madre

e non spirai appena uscito dal grembo?… Ora giacerei tranquillo…

Oppure, come aborto nascosto, più non sarei, come i bimbi che non

hanno visto la luce. (Giobbe 3, 2-4.6.10.11.13.16)

Tutti noi, un tempo, eravamo uno zigote. «Ognuno di noi ha subito un oltraggio nel momento in cui è stato messo al mondo (p.11)». Così incomincia un libro che si fonda su un presupposto piuttosto elementare: se non nasci, non ti manca niente e non soffri.

Per Benatar, antispecista e antinatalista perciò abortista, il suo è un discorso altruistico, non egoistico. «La mia tesi è che non ci sia alcun vantaggio nel venire al mondo, per cui nascere non vale mai la pena. So che è una tesi difficile da accettare (p.23)». Ecco perché si tutela dall’accusa di fare affermazioni controintuitive accogliendo, per confutarle sistematicamente, tutte le obiezioni possibili e le opinioni contrarie – sembra sinceramente grato ai colleghi che tentano di contraddirlo; risponde per esempio agli ottimisti e intacca la doxa.  «Insistere che il lato positivo è sempre il lato giusto», scrive, «significa anteporre l’ideologia all’evidenza (p.228)». La sua tesi, apparentemente così pessimistica, in un certo senso potrebbe giudicarsi ottimistica, perché se l’uomo si estinguesse non soffrirebbe più nessuno. Curioso che lo stesso autore, in uno slancio di solidarietà verso i lettori, suggerisca la possibilità di leggere soltanto determinati capitoli del libro a seconda dell’interesse di ciascuno.

L’asimmetria tra piacere (bene) e dolore (male) rappresenta un ottimo esempio dell’andamento sillogistico della sua strategia argomentativa, corroborata a volte da schemi e figure.

Questa valutazione simmetrica non sembra adatta all’assenza di dolore e piacere [anziché alla presenza], perché a me pare vero che

–  l’assenza di dolore è un bene, anche se quel bene non è goduto da nessuno, mentre

– l’assenza di piacere non è un male, a meno che vi sia qualcuno per cui tale assenza è una privazione (p.41).

Da ciò deriva che

se il dolore è male e il piacere è bene, ma l’assenza di dolore è bene e l’assenza di piacere è non bene [ma non, secondo Benatar, male], non c’è simmetria fra piacere e dolore (p.51).

Esiste una differenza sostanziale tra chi già esiste e chi ancora non esiste. Più che sui primi, a cui si rivolge, i ragionamenti di questo filosofo si concentrano sui secondi. La grande ambiguità, tempestivamente aggirata dall’autore, sta nel sostenere che una vita sia “degna di essere vissuta”, perché potrebbe significare sia “degna di cominciare” che “degna di continuare”. Per Benatar, non è un male che alcune vite continuino, mentre nessuna vita è degna di cominciare. La sua non è un’apologia del suicidio, né si contraddice quando scrive che, ormai al mondo, per alcuni valga la pena di continuare a esistere (benché la vita delle persone sia molto peggiore di quello che credono – si pensi alla cosiddetta Sindrome di Pollyanna, o Pollyannismo, o all’abusato concetto di resilienza; è quasi impossibile negare che tutte le vite umane contengano molto più dolore di quanto si ammetta normalmente). Benatar lotta contro un avversario più forte perché intrinseco e biologico, cioè l’istinto naturale alla sopravvivenza. Nonostante questo, crede che nessuna vita sia degna di cominciare:

I giudizi che noi diamo sui casi della vita futura – giudizi sul fatto che le vite siano degne di cominciare o meno – sono (e dovrebbero essere) su un piano diverso rispetto ai giudizi sui casi della vita presente – giudizi sul fatto che le vite siano degne di continuare o meno. Dire che un’altra vita quantitativamente simile alla propria è indegna di cominciare non equivale (necessariamente) a dire che la propria vita è indegna di continuare. Né riduce il valore che la propria vita ha per una persona. Naturalmente equivale a dire che sarebbe meglio se la propria vita non fosse cominciata, ma questa è una minaccia solo se si considera la propria non-esistenza dal punto di vista della propria esistenza. Detto altrimenti, equivale a considerare una decisione di vita futura sulla propria vita da una prospettiva di vita presente. E questo è un errore. Significa non considerare davvero il caso controfattuale in cui non si esiste (ancora) e quindi non si ha alcun interesse a venire al mondo (p.135).

L’idea che venire al mondo sia un male, insomma, non implica che smettere di esistere sia meglio che continuare a vivere.

Alla luce dei suoi presupposti radicali e ponderati allo stesso tempo, quindi, va da sé che fare figli sia moralmente sbagliato, immorale, anche perché i bambini non vengono partoriti per il loro bene (anzi, secondo il filosofo, neanche per il nostro):

Anche se i nostri potenziali discendenti potrebbero non rammaricarsi di essere venuti al mondo, sicuramente non si rammaricherebbero di non essere venuti al mondo. Dato che non è affatto nel loro interesse venire al mondo, il comportamento moralmente auspicabile consiste nell’assicurarsi che ciò non avvenga (p.115).

Questo libro pullula di espressioni molto forti e controverse: in accordo con quanto scritto finora, per esempio, fare sesso sarebbe moralmente accettabile soltanto senza fini riproduttivi. Dal momento che nascere significa patire il male di venire al mondo, il più delle volte bisognerebbe giustificare le rinunce ad abortire, più che gli aborti.

Benatar ragiona anche sul problema demografico, auspicandosi l’estinzione progressiva e non subitanea degli uomini. A suo avviso, comunque, «sarebbe meglio se ciò avvenisse prima che poi (p.211)».

È sbagliato e poco serio ignorare a priori le teorie di questo filosofo. Altrettanto sbagliato è condividerle senza riserve. Verso la fine del libro, forse quando non serviva più di tanto, si difende così dai detrattori superficiali:

Va notato che il carattere contro-intuitivo di un’idea [eventualmente, la sua] non può costituire di per sé un elemento decisivo contro l’idea stessa. Infatti le intuizioni sono spesso assai inaffidabili – semplice frutto di pregiudizi. Idee considerate profondamente contro-intuitive in un certo luogo e tempo sono spesso ritenute evidentemente vere in un altro. L’idea che la schiavitù sia sbagliata, o che non ci sia niente di male nei matrimoni misti, un tempo erano considerate altamente implausibili e contro-intuitive. Oggi in molte parti del mondo sono considerate auto-evidenti. Non basta quindi giudicare un’idea o le sue implicazioni contro-intuitive, e neppure offensive. Bisogna esaminare le argomentazioni che portano alla conclusione spiacevole. La maggior parte di coloro che hanno rifiutato l’idea che sia sbagliato creare nuove persone l’hanno fatto senza valutare il ragionamento che porta a questa conclusione. Hanno semplicemente dato per scontato che questa idea debba essere falsa (p.220).

È improbabile che molte persone prendano a cuore la conclusione che venire al mondo è sempre un male. È ancora più improbabile che molte persone smetteranno di fare figli. Al contrario, è molto probabile che le mie posizioni saranno ignorate o rifiutate. Siccome questa reazione provocherà una grande quantità di sofferenza fra il momento attuale e la fine dell’umanità, non è plausibile considerarla filantropica. Questo non vuol dire che sia motivata da cattiveria nei confronti degli esseri umani, ma è la conseguenza dell’ingannevole indifferenza verso il male di venire al mondo (p.242).


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