La violenza propedeutica
8 Luglio 2017, Gravina di Puglia (Bari). Un uomo si ferma nei pressi di una fontana, fa caldo e dei ragazzi sono nella zona per studiare; si avvicina alla fontana, i giovani lo vedono mentre tenta di annegare, rinchiusa in un sacco di plastica, una cagnolina di 4 mesi di cui dirà di volersi disfare. Riescono a salvarla dall’annegamento ma le denunce fatte da Piera Rosati, presidentessa della Lega del cane, rimarranno verso ignoti (Repubblica.it)
Sulla cattiva strada. Il legame tra la violenza sugli animali e quella sugli umani di Annamaria Manzoni è il libro a cui in parte mi rifarò. La sua prefazione, a cura di Paola d’Amico, inizia con molti casi come questo; ma prima di arrivare al tema vero e proprio, se così si può dire, vorrei fare un breve passo indietro.
Il tema della relazione intraspecifica della violenza è stato a lungo dibattuto e ben prima del 2017, anno del caso che ho presentato; poco prima del 50 a.C. Ovidio, e con lui Plutarco nel 48 d.C., affermavano già una connessione propedeutica tra il fenomeno della violenza sugli animali e quella contro gli umani. Tommaso d’Aquino, nonostante la sua piena convinzione dell’inferiorità animale riteneva che la violenza contro di essi aprisse la strada a quella nel regno umano; John Locke credeva parimenti che l’abitudine a far violenza agli animali portasse alla perdita di gentilezza e compassione anche verso gli uomini; Jean Jacques Rousseau raccomandava una dieta vegetariana ai fanciulli come mezzo per educarli ad una vita pacifica e priva di violenza, in una filosofia, la sua, dove tra i fondamenti dell’etica ritroviamo il rispetto per gli animali. E l’elenco potrebbe procedere fino ai giorni nostri, ma vorrei concentrarmi su Kant che, con la sua dottrina dei doveri indiretti verso gli animali, è stato il primo a delineare questo argomento in modo sistematico.
Nonostante affermi che l’avere status morale dipenda universamente dal possesso della razionalità e dell’autonomia morale – cose queste che non rintraccia negli animali – non esita ad ammettere che ci siano doveri indiretti anche verso coloro che non son da ritenersi persone morali, e tra questi gli animali compaiono a pieno titolo. I doveri in questione sono: non causargli sofferenza ingiustificata e non disporre della loro vita in assenza di valide ragioni.
Si dicono doveri indiretti perché, non essendo gli animali riconosciuti persone (cioè enti aventi status morale), possono beneficiare solo in modo indiretto, per riflesso, di doveri che in realtà dobbiamo ad altri umani; e in questo quadro va precisato che commettere violenza ingiustificata verso gli animali è a tutti gli effetti un’ingiustizia verso il genere umano: è nocivo e sbagliato perché può favorire altrettanti comportamenti violenti verso gli uomini.
Per fare un esempio: picchiare o maltrattare in qualsiasi modo e ingiustificatamente un animale è recare danno all’umanità perché molte persone soffrirebbero nel vedere perpetrate queste violenze e, soprattutto, si favorirebbero predisposizioni crudeli tra gli umani.
Leibniz, servendosi di un foglio, riportava sull’albero il piccolo verme, su cui aveva compiuto le sue osservazioni, affinché per sua colpa non gliene venisse alcun danno. Distruggere questa piccola creatura senza ragione non avrebbe potuto non turbare un uomo. (Immanuel Kant, Lezioni di etica, trad. di Augusto Guerra, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 274)
Nonostante la teoria kantiana rimanga entro un quadro specista e sia stata ampiamente criticata, appunto perché, non tiene conto dell’animale di per sé ma solo come proprietà e, nel peggiore dei casi venga addirittura assimilato alle mere cose perché sprovvisti di valore morale intrinseco, essa ci permette di parlare di un tema ormai noto e largamente dibattuto: la relazione che intercorre tra la violenza verso gli animali e quella verso le persone.
I dati a disposizione di Kant, nella seconda metà del ‘700, erano molto meno completi dei nostri; oggi sappiamo che gli animali hanno sentimenti, provano tanto il piacere quanto il dolore, hanno regole sociali, compiono scelte e sono soggetti alle emozioni, proprio come noi. Certo già Darwin aveva asserito che le differenze tra gli animali erano quantitative – cioè di diverso grado – e non qualitative, ma per molto tempo (Darwin scrisse L’origine delle specie nel 1859) le sue teorie rimasero senza un pubblico veramente attento e pronto ad accettarle. Egli postulava la parentela tra uomo e animale, creava un quadro filogenetico comune ai due regni, in un processo evolutivo lungo tutta la storia animale.
Oggi, grazie al lavoro di studiosi etologi come Giovanni Costa e Franz de Waal, sappiamo che esistono delle diversità tra umani e animali perché in tutte le specie – di cui l’uomo è parte – si riscontrano differenze in base alla storia filogenetica che hanno percorso; è chiaro che la prossimità filogenetica farà apparire le specie interessate come più simili, rispetto a quelle che hanno avuto minori relazioni ancestrali nel percorso evolutivo. Il che ci porta ad una conclusione cui Darwin era già pervenuto: quelle che riteniamo esclusività umane (come la razionalità, le emozioni, la morale…) sono in realtà patrimonio comune del regno animale, patrimonio che si è sviluppato per gradi differenti in varie specie.
Allora ci si potrebbe chiedere cosa ci legittimi e giustifichi nell’usarli e commerciarli come fossero cose a tutti gli effetti, e potremmo forse esser tentati- come è stato fatto in tutto il mondo occidentale, e come si fa tutt’ora- di rispondere ribadendo la nostra eccezionalità secondo criteri arbitrari: siamo più intelligenti, siamo fatti ad immagine di Dio, solo noi abbiamo una morale propriamente detta, siamo gli unici a poter stringere patti e darci leggi;, ma tutte queste scuse non troveranno riscontri negli studi che la nostra migliore scienza ci rimanda.
Credo quindi che sia doveroso approcciarci alla questione animale da un’altra angolazione, mostrare nel vivo quanto e come ci riguardi, non solo come parte del regno animale, ma come cittadini.
I casi di cronaca riportano, da qualche anno, le terribili violenze compiute a danno di varie specie di animali – solitamente pet: cani, gatti, uccellini – suscitando il ribrezzo per gli autori di tali atti. Questa novità, perché è di novità che si può parlare dato che fino a pochi decenni fa nessuna rete o quotidiano si impegnava a riportare i delitti verso gli animali, ci rivela, come una cartina tornasole, che quasi senza eccezioni oggi riteniamo la violenza contro gli animali domestici un crimine. Ed è di crimine che effettivamente si deve parlare, verso gli animali e verso l’umanità, per tornare a Kant.
Si è appena detto che per l’autore commettere crimini verso gli animali era commettere ingiustizia verso il genere umano, era abituare l’uomo a comportarsi in modo crudele. Gli ultimi studi ci rivelano quanto Kant ci avesse visto lungo: la violenza contro gli animali è spesso una propedeutica per la violenza verso gli umani, o se preferiamo, possiamo dire che vi è un collegamento tra i crimini verso gli animali e quelli verso gli umani.
Vi sono vari tipi di violenza, tutti riconducibili alla capacità e all’atto di agire sull’altro in modo tale da provocargli sofferenza; non possiamo quindi ridurre tutto a mera violenza fisica, ma dobbiamo necessariamente ampliare lo spettro entro il quale la violenza opera al fine di capirne le logiche e ridurla, se non del tutto eliminarla, dove possibile.
La violenza fisica è quella più manifesta, quella che solitamente condanniamo più facilmente e alla quale, purtroppo di sovente ci fermiamo; può essere varia e multiforme, spazia dalla rissa per futili motivi, alle sberle date al bambino capriccioso, ma può arrivare anche alla morte della vittima, come nei casi di femminicidio o a quelli di tortura e uccisione di animali.
C’è la violenza omissiva, quella dove la mancanza di cure necessarie porta alla sofferenza; basti pensare a persone costrette senza cibo, a cani esposti a caldo e freddo sul balcone, all’isolamento; in tutti questi casi la violenza è data da una specifica mancanza, quella delle cure necessarie al soggetto per vivere in conformità alle proprie esigenze sia fisiche che psicologiche e, naturalmente, specie specifiche e soggettive. Per intenderci meglio conviene che mi fermi su questo punto, con degli esempi. È un dato di fatto che ogni specie abbia diverse necessità, parafrasando Einstein ( «[…] se si giudica un pesce dalla sua abilità di arrampicarsi sugli alberi lui passerà tutta la sua vita a credersi stupido») possiamo dire che giudicare il benessere psicofisico di un pesce basandosi sulle necessità di uno scoiattolo sarebbe fuorviante e nocivo, se non mortale. È’ importante quindi sapere di cosa ha bisogno ogni soggetto per stare bene, non solo in quanto appartenente ad una data specie, ma come singolo individuo, con delle proprie inclinazioni ed emozioni.
Un altro tipo di violenza è quella psicologica, dove si vengono a creare emozioni negative e paure nel soggetto. Anche qui gli esempi sono innumerevoli, dallo stalking, al minacciare un animale con un bastone di percosse, o una persona; e i casi non finiscono qui.
Una tipologia poco nota, ma purtroppo diffusa, di violenza è quella sessuale: noi abbiamo, sfortunatamente, conoscenza degli stupri verso vittime umane, ma non ne abbiamo altrettanta rispetto alla zooerastia e la zoofilia, e addirittura ne abbiamo ancora meno per quanto riguarda le tecniche meccaniche di fecondazione adottate negli allevamenti.
Tutte queste forme di crudeltà esistono nella nostra società e ci formano, che ci piaccia o meno, ci coinvolgono e, nei più dei casi, ci turbano. Allora conviene chiedersi come la psicologia si sia mossa su questo terreno, come abbia inquadrato la relazione che intercorre tra la violenza sugli animali e quella sugli umani.
Dagli anni ’60 del secolo scorso la ricerca psicologica ha cercato di interpretare questi fenomeni, di elaborare teorie e di prevenirli, ma è solo nel 1987 che, per la prima volta, il Manuale Diagnostico e statistico dei disturbi mentali (Dsm) ha stabilito che la violenza verso gli animali è uno dei criteri diagnostici del Disturbo della condotta (in breve: nei bambini e negli adolescenti, una continua a sistematica violazione dei diritti dell’altro con la presenza di aggressività a vari livelli, fino allo stupro e all’omicidio, accompagnati da una riduzione del senso di colpa) e per il Disturbo Antisociale di personalità (in breve: avere comportamenti sistematici di disprezzo per le regole altrui, commettere atti illeciti tendenti allo sfruttamento per profitto personale o per piacere, non seguiti da rimorsi); le ricerche ci dicono che è possibile che gli stessi soggetti divengano adulti che adottano modalità violente di comportamento in ogni sfera relazionale e sociale.
È da questo momento che la violenza contro gli animali, come voleva Kant, diventa un fattore decisivo per l’umano. Quando iniziamo a interrogarci sulla violenza fuori dalla sfera umana lo facciamo sempre per tutelare l’uomo, l’animale rimane sullo sfondo, e forse il più delle volte scompare, come semplice manifestazione di un problema che coinvolge sì l’animale in quanto vittima, ma riguarda l’uomo. È comunque il caso di far notare che nonostante l’antropocentrismo implicito gli animali ora non vengono più visti come oggetti, prova ne è il fatto che non si parli di “vandalismo”, come se recargli dolore fosse lo stesso che imbrattare un muro o distruggere un cestino, si includono gli animali – e quindi la relazione che intercorre nell’atto violento – nella sfera dell’empatia e della relazione con l’altro. Si è così giunti alla conclusione che, nella maggioranza dei casi, i bambini che provocano dolore e sofferenza agli animali lo fanno perché, a loro volta, sono soggetti a un malessere provocato dai vari tipi di violenza sopracitati; non solo quella fisica o sessuale quindi, ma anche quella psicologica e omissiva. I quali non avendo strumenti né riferimenti per interrompere la violenza di cui sono vittime, deviano la loro aggressività sui soggetti che hanno nei loro confronti disposizioni pacifiche e positive, individui più deboli o ritenuti tali: gli animali. Inoltre un fattore che pesa non poco nella disamina di questi casi è la costatazione che nella nostra società, nonostante le attuali leggi vigenti, maltrattare gli animali è spesso un crimine impunito sia a livello legale, che a livello sociale.
Se provassimo a pensare a tutte le pratiche umane che coinvolgono gli animali e includono la loro sofferenza ci sarebbe poco da star allegri; siamo abituati alla violenza contro gli animali, la nostra intera società, l’economia, la ricerca medica, l’alimentazione, lo sport, l’intrattenimento, la moda, il turismo, tutte si sorreggono grazie alla violenza contro gli animali – e molto spesso anche contro gli stessi umani – una violenza però legalizzata e socialmente accettata.
Pare allora evidente che la questione della violenza unisca le specie, che sia quella verso gli animali che quella contro gli umani appartengano ad uno stesso problema che ci coinvolge come esseri viventi e come cittadini. Nonostante le ricerche in questi ambiti siano giovani c’è da sperare che facciano passi da giganti in tempi brevi data l’urgenza della questione, e che le persone nel loro gradissimo piccolo riescano ad andare oltre le tradizioni e il senso comune, per ravvisare le ragioni profonde – etiche e civili – che rendono questi temi così presenti e persistenti lungo tutta la nostra storia.
In conclusione, i nostri doveri verso gli animali sono indirettamente doveri verso l’umanità (Immanuel Kant, Lezioni di etica, trad. di Augusto Guerra, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 274)
Per non distruggerla, l’uomo, deve mostrare bontà di cuore già verso gli animali, perché chi usa essere crudele verso di essi è altrettanto insensibile verso gli uomini. Si può riconoscere il cuore di un uomo già dal modo in cui egli tratta le bestie. (Immanuel Kant, Lezioni di etica, trad. di Augusto Guerra, Laterza, Roma-Bari, 1984, p. 273)