L’amore inseguito
un filo invisibile nella letteratura
Io la amo. Ma lei non mi ama. Provo dolore, sento la gola chiudersi, lo stomaco trafitto da mille aghi appuntiti, il cuore che mi si stringe tra le costole. Impazzisco. Perché lei non ricambia il mio sentimento? Eppure pensavo che… ma mi sbagliavo.
Non riesco a darmi per vinto. Mi ostino. Continuo a cercarla. La inseguo.
Ecco, questo è all’incirca lo schema (certo semplificato) di qualsiasi vicenda amorosa dove l’amore – potremmo dire – non c’è, è assente: io sono innamorato, lei no; non vi è una condivisione del sentimento, ma piuttosto un contrasto d’intenzioni: troppe parole da una parte, silenzio assoluto dall’altra. La figura stessa dell’Amore viene così a coincidere con la persona amata, e non con il rapporto in sé: il soggetto amoroso è imprigionato in un vuoto a perdere, in un’illusione, in una caccia continua e infelice. È amore non corrisposto, amore inseguito.
Come un cane gallico che insegue la lepre sua preda, proprio come in una battuta di caccia, così Ovidio nelle sue Metamorfosi (I,vv.533-539) ci descrive il dio Apollo che instancabile corre dietro alla ninfa Dafne. Pazzo d’amore, non le dà tregua, la rincorre per campi e per boschi, senza sentire alcuna fatica. Sono stati colpiti entrambi da una freccia del dio Amore: lui dal dardo che scatena l’amore, lei da quello che lo scaccia; è la vendetta di Amore, che poco prima Apollo aveva ingiuriato e schernito. E il dio del Sole prova a chiamare la ninfa, le chiede di fermarsi ma lei non vuole, non potrebbe mai farlo.
L’inseguimento continua ancora per poco, Dafne ormai è esausta e Apollo sempre più vicino. Finalmente lei chiede a suo padre, Penéo, di salvarla: che faccia mutare forma al suo corpo, che trasformi la sua figura! Apollo è proprio dietro di lei, non c’è più tempo.
Ed è in questo momento che sopraggiunge il dio inseguitore. Riesce appena a toccarla sul petto, ma è già troppo tardi: dove prima c’erano carne e pelle ora vi è solo fresca e lucente corteccia. È la scena rappresentata nella celeberrima scultura di Gian Lorenzo Bernini, appunto Apollo e Dafne (realizzata tra il 1622 e il 1625), che riesce a cogliere l’esatto momento della metamorfosi di Dafne in un alloro: i corpi torsi e dinamici, Apollo cerca di trattenere Dafne col palmo della mano schiacciato sul suo petto ma, mentre sul viso della ninfa si dipinge una smorfia di dolore, le sue gambe diventano un tronco, le braccia e i capelli rami, e i piedi si ancorano a terra trasformandosi in radici.
Un episodio mitico rielaborato da Francesco Petrarca nel Sonetto 6 del Canzoniere. La narrazione onnisciente ovidiana viene ribaltata: la scena adesso è vista attraverso gli occhi di Apollo-Petrarca. Dafne-Laura corre veloce e irraggiungibile davanti a lui: il poeta non riesce a starle dietro, non solo è incatenato all’amore – mentre Laura non lo è, e per questo è tanto veloce – ma pure si sente in colpa per aver sacrificato la ragione e la fede in nome di una folle passione, di un desiderio che non potrà mai essere appagato:
Sì travïato è ‘l folle mio desio
a seguitar costei che ‘n fuga è volta,
e de’ lacci d’Amor leggiera e sciolta
vola dinanzi al lento correr mio (vv.1-4)
Ma torniamo ora un po’ più indietro: con quali parole Ovidio aveva descritto il sentimento di Apollo? Allo stesso modo di un mucchio di stoppie che, messo da parte, viene bruciato, «sic deus in flammas abiit, sic pectore toto|uritur et sterilem sperando nutrit amorem» “così il dio prende fuoco, così arde dappertutto nel petto, e alimenta con la speranza uno sterile amore”. Vediamo dunque che Ovidio descrive questo amore come un fuoco, come un incendio che sconvolge anima e mente dell’innamorato, e può persino portarlo alla follia: è la concezione classica – o meglio, latina – dell’amore come furor, cioè come pazzia, sentimento irrazionale che allontana l’individuo dalla ragione e dalla realtà, consumandolo. Questa interpretazione dell’amore, derivata soprattutto da Catullo, sta alla base dell’elegia latina, ovvero della poesia di stampo amoroso portata ai massimi livelli da autori quali Tibullo, Properzio e lo stesso Ovidio.
Vorrei riflettere un attimo proprio su alcuni versi di Properzio. Tutta l’attività di questo poeta è incentrata sul suo amore non corrisposto per una donna, Cinzia, cui pure ha deciso di dedicarsi totalmente: a lei è legato indissolubilmente da un servitium amoroso, da un rapporto di sudditanza contro il quale è impossibile combattere. Con atteggiamento autolesionistico l’innamorato accetta i soprusi e le gratuità della sua amata – che adesso è anche sua domina, sua padrona –, e continuerà a inseguirla nella speranza di poterla un giorno conquistare. Certo, si tratta quasi sicuramente di un modello letterario ma qui poco importa: a interessarci sono in primo luogo le parole che Properzio usa per descrivere il suo amore infelice e poi anche la giustificazione ideologica che a esso trova, non tanto la veridicità biografica dei suoi carmi.
Partiamo dal primo punto. Ci dice che ha consacrato la sua vita a Cinzia, che non guarderà mai più altre donne, che è consapevole di vivere come un pazzo, un dissennato: è in balia dell’amentia, della follia, da quando il crudele dio alato, Amore-Cupido, l’ha colpito con i suoi dardi; ma non è ancora finita: costretto a vivere sine sensu, in maniera insensata, porta sempre dentro di sé l’immagine del dio Amore:
Evolat heu nostro quoniam de pectore nusquam,
assiduusque meo sanguine bella gerit.»
“Ahimè, infatti non vola mai via dal mio petto
e conduce assiduamente battaglie a spese del mio sangue. (II, XII, vv.15-16)
Già in un altro punto aveva detto, con leggera variazione: «In me nostra Venus exercet noctes amaras|et nullo vacuus tempore defit amor» “quanto a me, la mia Venere mi travaglia con amare notti, e in nessun momento Amore mi abbandona, lasciandomi libero” (I,I,vv.33-34). L’amore è dunque dolore, continuo e perenne struggimento. Ma c’è ancora dell’altro, è come se il poeta fosse in guerra con la sua amata e con Amore stesso (prima ha parlato di “battaglie”). In una società, quella romana, che ancora in pieno regime augusteo – con la restaurazione propagandistica degli antichi mores, i costumi tradizionali – considerava la difesa della patria e il servizio militare doveri del cittadino, il poeta elegiaco ribalta la pretesa pusillanimità di chi invece decide di dedicarsi alle arti liberali, come lui. Come? Semplice, servendosi di un lessico propriamente guerresco:
Multi longinquo periere in amore libenter
in quorum numero me quoque terra tegat.
Non ego sum laudi, non natus idoneus armis:
hanc me militiam fata subire volunt.»
“Molti già perirono consunti da un lungo amore,
nel novero d’essi anche me la terra ricopra.
Non sono adatto alla gloria, né per natura idoneo alle armi:
i fati vogliono che eserciti la milizia d’amore. (I,VI,vv.27-30)
Dunque l’amore è una guerra e l’amante un soldato: il poeta non è meno esposto ai pericoli che un legionario romano. Quello che qui Properzio vuole dirci è che chiunque sia preso nelle reti dell’amore finisce per condurre una guerra personale, con le sue vittorie e le sue sconfitte – e perché no, magari anche la sua gloria.
Ricapitoliamo: abbiamo l’amore come pazzia e come battaglia personale. Ma è la storia di Orlando! È proprio l’avventura del paladino franco che, perdutamente innamorato di Angelica, si dimentica della guerra che l’imperatore Carlomagno sta conducendo contro gli eserciti musulmani e intraprende un memorabile inseguimento alla volta dell’amata – come Apollo, come Petrarca.
Ma ad un certo punto viene a scoprire da un pastore della fuga di Angelica con il saraceno Medoro, e del loro fortissimo amore. Orlando è disperato:
Questi ch’indizio fan del mio tormento,
sospir non sono, né i sospir sono tali.
Quelli han triegua talora; io mai non sento
che ’l petto mio men la sua pena esali.
Amor che m’arde il cor, fa questo vento,
mentre dibatte intorno al fuoco l’ali.
Amor, con che miracolo lo fai,
che ’n fuoco il tenghi, e nol consumi mai?Non son, non sono io quel che paio in viso:
quel ch’era Orlando è morto ed è sotterra;
la sua donna ingratissima l’ha ucciso:
sì, mancando di fé, gli ha fatto guerra.
Io son lo spirto suo da lui diviso,
ch’in questo inferno tormentandosi erra,
acciò con l’ombra sia, che sola avanza,
esempio a chi in Amor pone speranza.
L’amore è un fuoco perenne che divora il cuore: Orlando dice di essere morto, ferito a morte dalla crudeltà di Angelica, ormai diviso dal suo corpo. A ciò riduce l’amore, all’ombra di sé stessi. Ecco quindi che arriva la follia, il furor: ad Orlando non resta che vagare senza meta, errare nudo e stravolto con la spada alla mano, e devastare qualsiasi cosa incontri sulla sua strada. È vera e propria pazzia.
Ma – come diceva Italo Calvino – i versi d’Ariosto, così simili a quelli di Properzio, potrebbero benissimo riferirsi anche a Milton, protagonista di Una Questione Privata, il partigiano fenogliano innamorato pazzo di Fulvia, una bella ed enigmatica ragazza torinese sfollata ad Alba prima dell’8 Settembre 1943. Preso dalla nostalgia, Milton torna alla villa ormai chiusa di Fulvia: sarà mai tornata lì? dove si trova adesso? La guardiana gli rivela che Fulvia ha una relazione con Giorgio, anche lui partigiano e amico dello stesso Milton. Il giovane non vuole crederci, pensa di impazzire, deve scoprire la verità. E così, nel bel mezzo della guerra partigiana, dimentica tutto per raggiungere Giorgio e Fulvia, e ottenere una spiegazione: si scorda della guerra, come Orlando, e intraprende la sua militia amoris, come Properzio – ed è curioso che Johnny, altro memorabile personaggio di Fenoglio, prima di entrare nella Resistenza legga, nella soffitta di casa sua, anche Properzio, poeta amatissimo dallo scrittore albese.
L’amore di Milton è soprattutto un amore pensato, ragionato e immaginato nell’assenza dell’amore: è legato ad un’idea che non si saprà mai – data l’incompiutezza del libro – se sia vera o no:
Tu non devi sapere niente, solo che io ti amo. Io invece debbo sapere, solo se io ho la tua anima. Ti sto pensando, anche ora, anche in queste condizioni sto pensando a te. Lo sai che se cesso di pensarti, tu muori, istantaneamente? Ma non temere, io non cesserò mai di pensarti.
Si potrebbe anche dire che l’inseguimento in amore non debba per forza finire così, essere angoscioso dolore o perpetua lontananza, che dopotutto in alcuni casi lei è lontana ma vuole essere raggiunta… penso alle fiabe e ai romanzi/poemi medievali dove la fanciulla-principessa è stata rapita e il cavaliere-principe deve salvarla, o ad altre storie più vicine a noi (Renzo e Lucia?), tutte a lieto fine: anche questo è un inseguimento, certo, ma ho preferito concentrarmi su altro. Tutte storie dove l’inseguitore protagonista è uomo e la sfuggente preda d’amore è donna, me ne rendo conto, ma una tradizione letteraria è specchio di un sistema sociale (oggi certo superato) e d’altronde i modelli possono benissimo essere ribaltati. Pensiamo ad esempio a Leopardi e alla sua Saffo, infelice per la sua bruttezza – «virtù non luce in disadorno ammanto» – e per l’amore non corrisposto che nutre per il giovane e bello Faone: è anche quello un amore inseguito, e dal finale assai tragico.
Vorrei concludere con tre versi di Petrarca – la terzina finale del sonetto 35 (il famoso Solo et pensoso) – che sono assai simili ai versi di Properzio riportati poco sopra: l’amore, presenza invisibile e pervasiva, non ci abbandona mai. Queste parole ci rivelano forse perché la letteratura e la vita stessa siano tanto ingarbugliate nell’amore e nel desiderio, nell’illusione e nella delusione, nell’inseguimento di qualcosa che non è, e che si vorrebbe che fosse. Forse sta tutta qui la nostra umanità:
Ma pur sì aspre vie né sì selvagge
cercar non so, ch’amor non venga sempre
ragionando con meco e io con lui.