“Le straordinarie avventure di Julio Jurenito” di Il’ja Ėrenbug
un’enciclopedia satirica dell’umano
Questo libro farà ridere gli intelligenti e indignare gli sciocchi. Del resto, gli uni e gli altri ci capiranno ben poco. Ma tu non rattristarti della tua inettitudine. Capire me è in generale una faccenda difficile.
Il 1921 segna per Ėrenbug l’anno del passaggio dalla poesia alla prosa, quando esordisce con Le straordinarie avventure di Julio Jurenito (Neobičnye pochoždenija Chulio Churenito i ego učenikov, tradotto per Meridiano Zero da Caterina Ciccotti nel 2012). Il titolo completo, in realtà, è Le straordinarie avventure di Julio Jurenito e dei suoi discepoli: Monsieur Delhaie, Aleksej Tišin, Karl Schmidt, Mister Cool, Il’ja Ėrenburg, Ercole Bambucci e il nero Aiscia in giorni di pace, di guerra e di rivoluzione, a Parigi, al Messico, a Roma, nel Senegal, a Kinešma, a Mosca e in altri luoghi, nonché vari giudizi del Maestro sulle pipe, la morte, l’amore, la libertà, il gioco degli scacchi, la razza giudaica, la costruzione e molte altre cose.
Il libro si apre con la descrizione dell’incontro fra l’alter ego letterario e parodico dell’autore e Jurenito. Il 26 marzo 1913, mentre è seduto a un tavolo del caffè Rotonda sul boulevard Montparnasse, Ėrenburg vede entrare un uomo dall’aspetto insolito. Il tipo che lo scrittore scambia in un primo momento per il diavolo si rivela essere proprio Julio Jurenito, arrivato dal Messico. Si scopre così che, in punto di morte, il Maestro – così si fa chiamare – ha incaricato Ėrenburg di raccontare la sua storia e i suoi insegnamenti, investendolo dunque della doppia carica di primo discepolo e di cronista.
Il Maestro si muove tra quelle che considera le macerie culturali e politiche della vecchia Europa e della Russia con uno sguardo disincantato. In un ipertrofico slancio di nichilismo dichiara infatti che la cultura è un male che deve essere combattuto con ogni mezzo. È proprio questo punto di vista, senza vane illusioni, a renderlo una sorta di antieroe. Julio Jurenito potrebbe quindi essere visto come un distruttore.
Annoiandosi facilmente e non assecondando i brevi entusiasmi che di tanto in tanto lo illuminano, il Maestro non fa che scardinare le convinzioni di chi incontra. Dalla religione al senso della vita, Jurenito non risparmia niente e nessuno. Ogni aspetto dell’esistenza viene dissacrato attraverso discorsi che sembrano squarciare il velo di Maya non solo dei personaggi ma, spesso, anche del lettore.
Da quando ho avuto modo di constatare, anche in tempo di grandi cataclismi e rivolgimenti, la galera s’è sempre dimostrata la più stabile di tutte le istituzioni.
Il personaggio racchiude in sé sia Cristo che l’Anticristo: Jurenito auspica la fine del mondo ma anche la sua rinascita, in un’utopica apocalisse che cancelli le vestigia di una società, quella europea, ormai alla deriva. Crede infatti che solo dopo la distruzione dell’umanità e la sua ricostruzione potrà regnare la pace.
Com’è concepibile una libertà al di fuori di una perfetta armonia? Si muta rapidamente in una forma larvata di schiavitù. Per rendermi libero, opprimo gli altri. Si fa presto a imparare a non farsi mettere i piedi sopra, ma ci vogliono secoli ferrei di sforzi nuovi e inauditi per perdere la volontà di tiranneggiare gli altri.
Questo romanzo non è solo un’opera filosofica che ricorda, per registro e disavventure, un Candido o un Jacques il Fatalista, ma anche un’enciclopedia letteraria che ha come punto di partenza le acrobatiche peripezie di Jurenito e dei suoi discepoli, enciclopedia che si presenta come una riflessione escatologica tout court. Attraverso gli occhi del narratore, lo stesso Ėrenbug, il groviglio di incidenti si dispiega con lo scontrarsi e l’accavallarsi delle molteplici voci che rendono il romanzo non tanto polifonico (scomodiamo pure Bachtin) quanto – passatemi il termine – caosfonico.
Jurenito è un grande provocatore, la sua ironia smantella l’ordine delle cose e si concretizza, per esempio, nel capitolo dedicato a una versione parodica della Leggenda del Grande Inquisitore di I fratelli Karamazov di Dostoesvkij. Nella vicenda narrata da Ėrenburg, il Maestro veste i panni dell’inquisitore che, in questo caso, parla con Lenin e non con Cristo.
In uno scoppiettante viaggio il Maestro e i suoi discepoli (improbabili seguaci che vanno da un ligio studente di Stoccarda a un barbone trasteverino) ripercorrono il periodo dal primo conflitto mondiale alla Rivoluzione russa, in un susseguirsi di rocambolesche peripezie dal sapore picaresco. La pittoresca casualità degli eventi che sballottola i personaggi in una folle centrifuga fa da sfondo al pungente cinismo delle massime del Grande provocatore. La sua beffarda ironia fa da collante al disordinato collage di persone e vicende surreali che Ėrenburg assembla con un chiaro intento satirico.
Giunti in qualche modo a Elizavetgrad, facemmo una buona dormita e al mattino decidemmo di visitare le cose notevoli della città dove la sorte ci aveva condotto come a una terra promessa. Ma, appena usciti di casa, una pattuglia ci fermò e ci chiese i documenti. Jurenito porse orgogliosamente a un soldato un ragguardevolissimo foglio, su cui si leggeva che eravamo stati invitati in missione nella città di Elizavetgrad per un’indagine sugli strumenti musicali del luogo. Letta attentamente la carta, il soldato la mostrò al suo compagno e, chissà perché, entrambi concepirono il fermo desiderio di fucilarci.