Claudio Musso
pubblicato 1 anno fa in Letteratura

‘’Le voci di Marrakech’’ di Elias Canetti

‘’Le voci di Marrakech’’ di Elias Canetti

Nel 1954 Elias Canetti intraprende un viaggio in Marocco al seguito di una troupe televisiva perché sente il bisogno di congedarsi, seppure momentaneamente, dalla scrittura immersiva di Massa e potere, la sua più nota e densa opera di saggistica filosofica. Lo scrittore si concede così una pausa per abbracciare un altrove che gli doni la curiosità non del turista ma dell’uomo che, attraversando una realtà che gli è sconosciuta, si nutre delle sue innumerevoli voci.

Da queste istantanee maghrebine nasce Le voci di Marrakech – edito in Italia da Adelphi nella traduzione di Bruno Nacci –, che l’autore pubblica una decina di anni dopo il suo viaggio.

La prima esperienza che lo scrittore vive a Marrakech riguarda i cammelli, protagonisti di due situazioni opposte che rimandano ai contrasti di cui sembra ammantarsi, forse fieramente, quella terra. Prima ne vede uno, affetto da rabbia, che con i suoi movimenti convulsi lotta per la vita, conscio che lo stanno portando al mattatoio. Poi, sul fare del tramonto, Canetti osserva i cammelli di una carovana che, durante una pausa, siedono in cerchio gustandosi il loro foraggio, come vecchie signore inglesi che prendono il tè insieme, con quell’aria dignitosa e apparentemente annoiata, senza nascondere del tutto l’aggressività dei loro sguardi.

In Marocco Canetti si muove da solo, senza guide. un passaggio obbligato di questo viaggio sono i suk, con i loro aromi e colori che cambiano di continuo a seconda delle merci esposte, nei quali non compare mai un prezzo stabilito, che verrà fuori solo dopo un’estenuante contrattazione: l’oggetto comprato tuttavia acquista un valore aggiunto, dato dal rapporto personale instaurato con il venditore, dal tè offerto, dal dialogo tra due mondi che prima non si conoscevano.

In quegli anfratti dove si vende di tutto Canetti coglie, nei visi dei venditori ambulanti, uno pigiato accanto all’altro, l’orgoglio per i propri prodotti e per quelli che stanno per essere realizzati. Lo si può notare dal cordaio alacremente intento al suo lavoro o da schiere di ragazzini che si danno il cambio al tornio felici di potere creare qualcosa, dandogli forma.

È una pubblica attività, è un fare che esibisce se stesso insieme all’oggetto finito. In una società che tiene nascosto così tanto di sé, che agli stranieri cela gelosamente l’interno delle sue case, la figura e il volto delle sue donne e perfino i suoi templi, questa intensa ostentazione del produrre e del vendere è doppiamente affascinante.

Canetti prova la sensazione di trovarsi dentro un immenso e laborioso alveare in cui coglie l’intimità tra il mercante e la sua merce, che custodisce e tiene in ordine come se fosse la sua famiglia, mentre molti occhi lo osservano in quanto straniero perché, come in ogni alveare, ci sono le api guardiane. Inoltre, se è vero che Canetti nota subito il contrasto tra le leggi del suk marocchino e il mercato europeo da cui proviene, tra il commercio come «arte antichissima» e lo scambio che rispetta «il prezzo fisso», non cade nell’abitudine di colonizzare lo straniero leggendolo solo in termini di differenza rispetto al proprio quotidiano, ma lascia che il paese gli venga incontro così com’è, ponendosi in ascolto dei luoghi per vederli davvero (o almeno per tentare di farlo).

Con questo approccio, nelle sua passeggiate per Marrakech, Canetti percepisce «una sostanza meravigliosamente lucente che non riesce a fluire», che rimane bloccata dentro di sé. Assorbe, è vero, un insieme di avvenimenti, immagini e suoni il cui senso prende forma durante questo viaggio, ma tutto questo non si traduce ancora in parole, perché la sua esperienza sensoriale e etnografica sta ancora al di là delle parole stesse. Non stupisce di conseguenza che lo scrittore, benché abituato a destreggiarsi attraverso lingue diverse, non voglia imparare né l’arabo né alcune lingue berbere, per non perdere nulla della forza di quelle voci incomprensibili.

Per scoprire ancora di più questa nicchia araba, che ha fatto del cosmopolitismo la sua cifra e nella quale si avvertono già i primi moti indipendentisti dal protettorato francese, Canetti sale sui tetti delle case per osservare la città dall’alto: i suoi minareti assomigliano a fari dove dimora la voce della preghiera e un’intera popolazione di rondini – una seconda città sulla città – vive e si libra nell’aria mentre per le strade i cantastorie fanno sfoggio del loro antico sapere e i numerosi ciechi delle loro litanie, promettendo un futuro migliore.

La sua appartenenza ebraica lo porta poi a visitare – e sono i capitoli centrali del libro – la Mellah, il quartiere ebraico, popolata da una stupefacente varietà di volti che hanno in comune lo sguardo di chi è sempre all’erta e il desiderio di non provocare l’ostilità che potrebbe attenderli. Non c’è nei loro occhi ombra di sfida ma una paura saggiamente tenuta celata. Nella piazza principale del quartiere, Canetti ritorna alle proprie radici pensando ai racconti del nonno, ebreo sefardita di origini spagnole trasferitosi in Bulgaria, terra natale dello scrittore:

Davvero in quel momento mi sembrò di essere altrove, di aver raggiunto la meta del mio viaggio. Da lì non volevo più andarmene, ci ero già stato centinaia di anni prima, ma lo avevo dimenticato, ed ecco che ora tutto ritornava in me. Trovavo nella piazza l’ostentazione della densità, del calore della vita che sento in me stesso. Mentre mi trovavo lì, io ero quella piazza. Credo di essere sempre quella piazza.

Le voci di Marrakech vengono pubblicate – forse non a caso – nel 1967, in un momento cruciale della storia d’Israele, quando i suoi vicini arabi lo attaccano per la seconda volta in pochi anni. Le parole di Canetti, che descrivono l’orgoglio e la felicità degli ebrei di Marrakech non per essere rispettati o ritenuti uguali agli arabi ma per non essere perseguitati, potrebbero risultare un felice esempio di convivenza da contrapporre alla Guerra dei sei giorni, scoppiata appunto nel 1967, e, in fondo, alle voci di aspro contrasto con cui si esprime ancora oggi quella terra da sempre divisa.

Si parlava prima di occhi che osservano. A differenza dei tanti stranieri o dei francesi locali, Canetti non riesce a non provare affetto per quei tanti bambini mendicanti che a gruppi lo aspettano agli angoli della casa o lo spiano dietro i vetri del ristorante. Non è indifferente a quell’umanità lacera e incalzata dal bisogno che rappresenta solo la superficie visibile di problemi ben più gravi di povertà e di sfruttamento celati nel profondo di quella terra. Di più: se Canetti non li vede li va a cercare o fa in modo di farsi trovare. Tra le voci di Marrakech c’è anche il grido «manger!». A pronunciarlo sono quei visi imploranti che, ricevuto qualche soldo, riflettono un’indiavolata allegria.

Le grida di gioia di questi bambini si uniscono alle tante voci, alle nuove voci di cui Canetti ha un gran bisogno, e che questo testo, nella sua predilezione per l’istantaneo e nella sua esattezza quasi antropologica, racchiude come una cassa armonica che chiede solo di essere ascoltata.