Luz, l’ebraico “nocciolo dell’immortalità”
e se fosse possibile per l'uomo rinascere da sé stesso?
David Grossman, nel suo libro “Che tu sia per me il coltello”, allude ad una antica leggenda ebrea, quella del luz, una leggenda affascinante ed esoterica, che lo scrittore recupera dandole una connotazione squisitamente romantica.
Ma partiamo da un mito lontano, risalente alla splendente epoca egiziana: Iside ed Osiride giacevano uniti nel ventre della loro madre; già qui Iside si scopre innamorata del fratello, già qui si uniscono ancor prima di nascere, già qui il loro destino appare segnato da travagli e angosce: Osiride morirà, ucciso dal fratello Seth, che, inasprito dalla gelosia, dopo averlo annegato, ne smembra il corpo, nascondendone le varie parti. Da quel momento in poi Iside, sposa fedele del suo amato, vagherà disperata nel mondo ricercando i vari frammenti di quel corpo lacerato, vagherà fino a trovarli tutti e nell’innalzare la spina dorsale del suo amato, trovata, insieme all’osso sacro nella città di Busiride, esclamerà: “Risorgi, o Osiride, ti è resa la tua spina dorsale.”
L’osso sacro che ridona la vita, che restituisce energia vitale ad un corpo smembrato, ha da lì affascinato l’uomo, accarezzando l’idea consolatoria di resurrezione ed immortalità. La leggenda dell’osso della resurrezione passa poi nella tradizione Talmudica.
Enrico Cornelio Agrippa, alchimista ed esoterista del XV secolo, nella sua opera “La filosofia occulta” scrive: “Nel corpo umano vi è un certo osso minimo, che gli ebrei chiamano luz, nella grossezza d’un cece mondato, che non è oggetto ad alcuna corruzione, che è vinto dal fuoco, ma si conserva sempre illeso, dal quale (come dicono) come una pianta da un seme, nella resurrezione dei morti il nostro corpo umano ripullula, e queste virtù non si dichiarano col ragionamento ma colla esperienza”. Un osso, dunque, che conserva la nostra linfa vitale, la nostra anima, il ricordo delle nostre esperienza passate. Un osso che racchiude la nostra intera vita, o, stando alla leggenda, le nostre intere vite; tutte. Un osso che, grazie alla sua alchimia, permette all’anima di rinascere.
Molto prima di Agrippa, già il rabbino Uschaia, nel 210 d.C. aveva scritto del piccolo osso avente proprietà divine. Si narra che l’imperatore Adriano chiese al Rabbino Hananiah come avvenisse la resurrezione del corpo e questi gli rispose rievocando e dando prova della leggenda: si fece portare un ossicino che, per quanto egli tentasse di disintegrarlo, rimase intatto, perfetto nella sua modestia.
Quel nocciolo indistruttibile venne chiamato luz, che in aramaico è appunto il nome del coccige, perché nel Talmud, testo classico dell’ebraismo, è associato con la città di Luz, luogo a cui, leggiamo in Genesi, sarà dato nome di Bethel da Giacobbe, in seguito al noto sogno ch’egli ebbe presso quella città.
Luz, si narra, era popolata da abitanti immortali, poiché in essa l’Angelo della Morte non aveva accesso, e coloro che, nell’immortalità, erano ormai stanchi della vita, venivano portati fuori dalle mura della città, così che l’Angelo potesse far loro visita.
La tradizione talmudica continua narrandoci di un mandorlo, sito, appunto, vicino alla città di Luz, e alla cui base si trova una cavità attraverso la quale si penetra nella città, in realtà completamente nascosta.
È singolare, narrando ciò, sapere che il termine luz ha linguisticamente una radice che indica tutto ciò che è nascosto e celato. Ma è, soprattutto, importante sottolineare che lo stesso termine, in ebraico, designa il mandorlo ed il suo frutto. Da qui si deduce il motivo per cui il luz viene definito anche “nocciolo dell’immortalità”, così come la città che porta il suo stesso nome rappresenta il “soggiorno dell’immortalità”.
È affascinante pensare di avere una parte del corpo che rappresenti, in qualche modo, l’embrione di noi stessi, il punto da cui risorgere, da cui ritrovarsi, un punto indistruttibile, fisicamente e spiritualmente così potente da non farci morire mai veramente.
L’essere umano che rinasce da sé stesso, come la fenice dalle proprie ceneri.
Un’idea così affascinante da suscitare in Grossman un romanticismo che segue la tradizione, ma al tempo stesso la supera, facendo del luz astratto, un luz estremamente concreto e tangibile, tanto che leggendo le sue parole, si spera quasi che quell’ossicino, in fondo, esista davvero:
Ho letto una volta che gli antichi saggi credevano che nel corpo ci fosse un ossicino minuscolo, indistruttibile, posto all’estremità della spina dorsale. Si chiama luz in ebraico, e non si decompone dopo la morte né brucia nel fuoco. Da lì, da quell’ossicino, l’uomo verrà ricreato al momento della resurrezione dei morti. Così per un certo periodo ho fatto un piccolo gioco: cercavo di indovinare quale fosse il luz delle persone che conoscevo. Voglio dire, quale fosse l’ultima cosa che sarebbe rimasta di loro, impossibile da distruggere e dalla quale sarebbero stati ricreati. Ovviamente ho cercato anche il mio, ma nessuna parte soddisfaceva tutte le condizioni. Allora ho smesso di cercarlo. L’ho dichiarato disperso finché l’ho visto nel cortile della scuola. Subito quell’idea si è risvegliata in me e con lei è sorto il pensiero, folle e dolce, che forse il mio luz non si trova dentro di me, bensì in un’altra persona.