Camilla Gazzaniga
pubblicato 3 anni fa in Letteratura

Ma chère Tristesse. Su “Buongiorno, mezzanotte” di Jean Rhys

Ma chère Tristesse. Su “Buongiorno, mezzanotte” di Jean Rhys

Buongiorno, mezzanotte!

Torno sui passi di casa,

il giorno s’è stancato di me –

come potrei esser io stanca di lui?

La luce del sole era un dolce posto,

mi piaceva rimanerci –

ma il mattino non mi ha voluta –

quindi buonanotte, giorno!

                         EMILY DICKINSON

Buongiorno, mezzanotte è un ossimoro in verso poetico, è la formula del primo saluto che viene però rivolta alla fine. È un esercizio all’oblio più che mai necessario, nel titolo dato da Jean Rhys al suo romanzo, comparso per la prima volta nel 1939, in Italia edito da Adelphi nella traduzione di Miro Silvera. Un romanzo che spalanca le febbrili disperazioni della protagonista come fosse la bocca della notte, perché è nella notte, quando Sasha è stesa sul letto di una stanza d’albergo, che tutto crolla e si rivela una caricatura. La tristesse sarà ordita in forma di appunti lucidissimi, un’ultima volta prima di dimenticare.

«Il giorno s’è stancato di me», recita la poesia che è stata di ispirazione per Jean Rhys, e non a caso la narrazione si apre di sera. Sasha – la voce narrante – affonda in un drink e in un pesante pianto. La malinconia è il fil rouge che segna ogni pagina e trama sottotesto una storia di luoghi che celano solitudini, di un tempo presente che in realtà è l’eco di un presente-passato.

Sasha chiede a sé stessa una nuova disciplina emotiva in cui la ragione è chiamata ad appannare i ricordi bui, e a organizzare con minuzia le piccole abitudini quotidiane. Stila programmi a cui attenersi scrupolosamente – «come potrei esser io stanca di lui?» –, districa il suo vivere parigino tra un locale scelto per il mezzogiorno, uno per la cena, un bar per un bicchiere dopo. Evita certi posti, i vicoli bui, e in particolare i luoghi del passato, per farli sbiadire. Tenta perfino di disciplinare gli attimi di incoscienza, per essere ragionevole anche dove la ragione non può arrivare – «Sonno. Non sogni, soltanto sonno». Vuole fuggire dagli eccessi di morte e da quelli di vita, per non esserne svuotata subito dopo, per non sentirsi sopraffatta né dall’una né dall’altra e rimanere lucida.   

L’importante è avere un programma, non lasciare nulla al caso, nessun vuoto, non trascinarsi per le strade senza meta, con in testa il solito disco, il frusto ritornello dei ricordi: qui è accaduto questo, qui è accaduto quello… Soprattutto non piangere in pubblico, e se possibile nemmeno in privato. 

Sasha però non ci riesce. Sola per strada, nei locali, cade assorta nei pensieri da dimenticare. Gli angoli di Parigi, tutti quelli in cui è accaduto qualcosa, sono epifanici: la riportano ossessivamente sul passato. L’intreccio si compone di non detti che sono anche non pensati, perché Sasha si preoccupava di non essere vista, di non parlare più del necessario. Come se portando il passato nella narrazione – e restituendolo al presente – potesse riscriverlo anche oltre le pagine, come se potesse correggerlo davvero.

In un passaggio denso di un’ironia amara, Sasha ricorda un dialogo con un superiore ai tempi del lavoro in sartoria; al commento allusivo e arcigno sulle sue capacità, lei risponde docile e piange. Ma una volta sola, ai tempi della narrazione, Sasha corregge quel ricordo con ciò che avrebbe desiderato dirgli, ma che non avrebbe mai detto:

Non si può essere tutti felici, ricchi, fortunati… Se ciò fosse possibile, la vita sarebbe molto meno divertente, non è così? Non è così, signor Blank? Ci vuole uno sfondo opaco su cui possano meglio risaltare i colori luminosi. È necessario che alcuni piangano perché altri possano ridere di cuore. […] Deve poter disprezzare la gente che sfrutta. Ma io le auguro un mare di guai, signor Blank e, tanto per cominciare, il suo maledetto negozio fallirà. Alleluia! Ho detto tutto questo? No. Non l’ho nemmeno pensato.                                                                                                        

Antichi ricordi o suggestioni di eventi presenti si dispiegano attraverso monologhi interiori, e diventano lacci che la proiettano in un ricordo ancora più remoto, doloroso. Nondimeno la prosa si mantiene sobria e curata, quasi distaccata, traccia con molta minuzia gli arredi, i luoghi, le atmosfere; l’autrice instaura una corrispondenza tra il chiuso, ciò che è situato dentro a una casa, un albergo, e ciò che è racchiuso in Sasha, la sua intimità. Stanze tutte uguali, molto ampie, vuote; l’insistenza ossessiva del vicolo cieco.

Io mi sforzo, ma tutti mi riconoscono a prima vista. Corridoi che non conducono mai da nessuna parte, porte che saranno sempre chiuse.

Per tutto il romanzo i luoghi della narrazione, i loro interni squallidi saranno il riflesso della dimensione interiore della protagonista, desolata, smangiata anch’essa dall’alone del tempo e dell’età che si addensa. «Questa sono io. Puntolini neri sul muro. Li fisso, convinta che si muovano». Sasha è come queste stanze con il tappeto e le tende sfilacciate, la spoglia natura morta di effetti personali sul comodino; è come i cafés di una Parigi degli anni Trenta in cui, la sera, dimentica sé stessa sul fondo del bicchiere, dopo esservi appena tornata. Una corrispondenza che nel prosieguo della narrazione la assorbe del tutto, tanto da convincerla che cambiare stanza vorrebbe dire cambiare anche il suo destino; ma alla fine una varrà l’altra, e l’unica premura sarà quella di avere un qualsiasi luogo per stare «al riparo dai lupi».

I luoghi diventano quindi personaggi. In un frammento le case vengono presentate come individui che si pongono in maniera differente a seconda di chi hanno davanti; non hanno soglie accoglienti né finestre, solo buio e spigoli sporgenti per chi vuole entrarvi in miseria. Le stanze degli altri e le strade, i locali fuori dai suoi schemi la assillano, come se tutti stessero per  attaccarla. Il più delle volte è un “tutti” effimero, perché ognuno è ripiegato su sé stesso, nel suo individualismo; i pochi scontri reali, ai quali Sasha deve sopravvivere, sono di una cattiveria assurda e beffarda: traspare una durezza empatica, l’idea che se si entra troppo nella sfera dell’altro, se si scostano le tende per sbirciare uno spiraglio di vita altrui – come Sasha fa – l’altro potrà vendicarsi. Ma è ugualmente solo.

Finché Sasha, a un tratto, si impone il distacco, nella vita – «la vita è felice quando non ti importa più se vivi o muori» – e nell’amore, dopo un incontro perturbante. Vorrebbe che il suo corpo diventasse santuario impeccabile con cui mostrarsi al mondo, un travestimento da femme convenable che si cristallizza soltanto dopo molte sfortune, una maschera per essere come gli altri, per penetrare le logiche che la relegano ai margini. Eppure, ogni lampo di vita la aggrappa a sé, ritornando a ciò che aveva già superato, in una sorta di moto retrogrado dei sentimenti che non intendono consumarsi. Più volte l’esistenza di Sasha è resa attraverso parole che afferiscono al campo semantico dell’annegare, dello sprofondare; a volte in toni metaforici per rendere lo stato di chi stava per affogare in acque stagnanti e poi è stato miracolosamente ripescato, altre in maniera più esplicita: «Perché non ti sei annegata nella Senna?», le chiede l’ultimo parente che le resta, una volta tornata a Londra. Sasha è una delle protagoniste di Jean Rhys, e come loro ha sofferto la fame, l’amore, la perdita. E come Sasha, Jean Rhys si frammentò tra Londra e Parigi e, rifiutata dal mondo del teatro, conobbe la marginalità nei luoghi che poi divennero l’ossatura dei suoi romanzi.

Solo i folli, gli incoscienti, chi in qualche modo è già al di là di tutto può sopravvivere. Chi è ricco e potente si macchia di tutte le bassezze del vivere sociale, e chi non lo è rimane integro, ma ne risente. È tutto nel dipinto che Sasha acquista, sulla tela un vecchio «rassegnato, ironico, un po’ folle»; ha due teste, una rivolta al presente, l’altra al futuro. Lo si può pensare come il tocco geniale dell’autrice, che raffigura Sasha anche attraverso il dipinto; per lei non può esserci  un futuro senza passato perché tutte quelle strade, quelle stanze Sasha le ha già riempite con il dolore, e la memoria, quel dolore, lo proietterà sempre davanti a sé.

La vera sfida non è smettere di vivere, ma di ricordare.

La mia vita, in apparenza tanto semplice e monotona, in realtà è tutta una complicata faccenda di bar dove sono ben accetta e bar dove non mi vogliono, strade amiche e strade minacciose, camere dove potrei essere felice e camere in cui non lo sarò mai, specchi dove mi vedo carina e specchi dove sono brutta, abiti che portano fortuna e abiti che portano sfortuna; e così via per tutto il resto.