Maus, Art Spiegelman
empatia e violenza
Per sopravvivere a un’eccessiva sensibilità bisogna uccidere l’empatia.
Per sopravvivere a un’eccessiva empatia bisogna uccidere la sensibilità.
Sfogliando Maus di Art Spiegelman, probabilmente il più celebre fumetto della storia, rimango catturato dall’ultima vignetta di pagina 41.
L’ossigeno fatica a fluire correttamente tra i bronchi, tra le arterie, non riesce a compiere la missione di arrivare al cervello e animare i nervi. Mi blocco.
Mentalmente cancello il virgolettato. Mi consento e mi si consenta la sortita dai temi del fumetto.
Sono io, Art, con l’anima di un sorcio, comodo appoggiato sulla mia scrivania a contemplare i miei pensieri, i miei problemi, su un tappeto di corpi senza vita.
Totalmente astratto dal tonfo mefitico che si innalza continuamente.
È diventata impresa per pochi restare umani.
A pochi chilometri da me, siciliano, si consuma un eccidio interminabile ed è come se non me ne rendessi conto. Il Mar Mediterraneo continua ad ingoiare vite umane e a sputarle nella mia stanza. Ci passo sopra, spengo la luce, chiudo la porta, vado a dormire. E’ come se non fosse successo niente.
Il cinismo è una cura forzata, è una balia accomodante che accarezza gli occhi e permette di riposare. E’ una bolla di sapone insonorizzata. Funziona, ma è fragile. E’ una tentazione fortissima chiudermi in me stesso. Forse più che una tentazione, o più probabilmente io la sento tale, è un’imposizione.
Costretti e tempestati da una mole inenarrabile di nefandezze, bersagliati dai notiziari che riportano instancabilmente e con dovizia di particolari notizie tragiche in una carovana di immagini da spettacolo della crudeltà.
È inevitabile cedere.
Assisto inerme all’aizzamento delle folle da parte di capibranco social che fanno della violenza verbale il proprio slogan, della concisione e dell’immediatezza i propri stilemi, del sovvertimento della realtà, della sua commistione con il falso, il proprio scopo.
Assisto inerme a tutto ciò e mi rispondo che forse è meglio non proferire parola. È meglio star comodamente seduto sul mio candido piedistallo che insozzarmi le mani nella melma della pubblica piazza.
C’è chi, consciamente o inconsciamente, resta pietrificato nelle proprie verità assolute, incrollabili.
C’è chi ha a suo sfavore il beneficio del dubbio e si trova bombardato da verità sfavillanti. Sono atterrito da tanta certezza.
Sono atterrito da tanta violenza, verbale e concreta.
E atterrito mi chiudo nel mio angolo di cinismo, muto, inerme, inutile.
Sono ancora scosso dalla valanga di commenti sul rogo del camper a Roma, su quelli che giornalmente inondano ogni canale con il loro astio vuoto e svuotato. Sono tremendamente scosso dall’uccisione del ragazzo, mio coetaneo, su un barcone da parte dello scafista, poiché reo, secondo ciò che viene riportato da più fonti, di non avergli ceduto il suo berretto.
E, scosso, prendo in prestito le parole di un Signore della cultura italiana, Pier Paolo Pasolini, che, così, commentava qualche mese prima di essere barbaramente ucciso:
Che cos’è che ha trasformato i proletari e i sottoproletari italiani, sostanzialmente, in piccolo borghesi, divorati, per di più, dall’ansia economica di esserlo? Che cos’è che ha trasformato le «masse» dei giovani in «masse» di criminaloidi? L’ho detto e ripetuto ormai decine di volte: una «seconda» rivoluzione industriale che in realtà in Italia è la «prima»: il consumismo che ha distrutto cinicamente un mondo «reale», trasformandolo in una totale irrealtà, dove non c’è più scelta possibile tra male e bene. Donde l’ambiguità che caratterizza i criminali: e la loro ferocia, prodotta dall’assoluta mancanza di ogni tradizionale conflitto interiore. Non c’è stata in loro scelta tra male e bene: ma una scelta tuttavia c’è stata: la scelta dell’impietrimento, della mancanza di ogni pietà.
Il cinismo è la tacita accettazione della crudeltà, l’effimero consolarsi allo specchio di un’intelligenza vanitosa, pietosa nella sua vanità. Nulla più.
Non ho la cura, non so neanche se il cinismo sia la malattia più grave.
So che è un male. Nei rari momenti di lucidità lo percepisco.