Mirabolanti quotidianità e favolose miserie
"In quel cortile di Mosca" di Ljudmila Ulickaja
Nell’arcaica vita dei sobborghi di Mosca, un alveare, un intrico di vicoli i cui centri d’attenzione gravitavano attorno alle fontanelle ghiacciata e ai depositi di legna, non esistevano segreti di famiglia. Neppure di una normale vita privata si poteva parlare, giacché tutti, fino all’ultimo, erano al corrente di ogni singolo rammendo ai mutandoni che sventolavano appesi alle corde comuni.
Le vicende di In quel cortile di Mosca di Ljudmila Ulickaja (si tratta di vari racconti riuniti da Edizioni e/o e tradotti da Raffaella Belletti) si svolgono nel microcosmo di un cortile di Mosca in cui drammi, amori e quotidiane peripezie si mescolano in una narrazione che ci dona un affresco di quel caleidoscopico mondo che è l’animo umano.
Il primo dei racconti vede come protagonista Buchara, giunta nella capitale russa al seguito del marito. Il suo arrivo non incontra i favori di Paša, la vecchia domestica del nonno del marito che, avendo saputo del trasferimento dei neosposi nell’appartamento in cui lei presta servizio, si vede derubata del ruolo di colonna portante della casa:
È una cosa che spiace a vedersi. Ha sposato quel tizzone di asiatica. In una parola, quella Buchara!
Nonostante i primi scetticismi di Paša, Buchara con il suo animo gentile riesce a farsi volere bene da tutti. I problemi si presentano però di nuovo alla sua porta quando dà alla luce una bambina, Miločka, cui viene diagnosticata la sindrome di Down.
Osservando la figlia, Dmitrij Ivanovič pensava con amarezza a che prodigio avrebbe potuto essere quella bambina, quale affascinante personalità fosse sepolta in quel corpo difettoso.
I rapporti fra Buchara e Dmirtrij vanno così raffreddandosi. Lei, sempre più attaccata alla figlia, lui sempre più estraneo a entrambe. Tutta la magia dell’incontro con quella bellezza orientale svanisce sotto il peso della paura che una ulteriore gravidanza possa generare un’altra creatura da lui considerata così debole e bisognosa di attenzioni. L’uomo lascia perciò la famiglia e trova conforto tra le braccia di una donna la cui sterilità lo libera dall’incubo di una prole a suoi occhi difettosa. Buchara si ritrova sola e decide di dedicare la sua intera esistenza al benessere di Miločka.
Ol’ga Aleksandrovna, chiamata familiarmente Ljalja, aveva un carattere d’oro. Bella e spensierata, non domandava molto alla vita, ma neanche si lasciava scappare ciò che le capitava tra le mani.
Tutto cambia quando, nello studio di suo marito, fa la comparsa un compagno di classe di suo figlio: Kaziev, un ragazzo orientale proveniente da una famiglia di artisti circensi. L’incontro con questa misteriosa figura la avviluppa in un vortice di follia amorosa che la farà piombare in un ebete stralunamento allo scoprire che il giovane intrattiene rapporti anche con sua figlia.
L’onomastico di Gulja coincide con la viglia di Natale, onomastico che per nulla al mondo tralascia di festeggiare, neanche durante i periodi dell’esilio e del lager (era stata arrestata per ben tre volte). La vita di Gulja è così, un turbine di spensieratezza, un vivere con tutte le proprie forze senza lasciarsi sfuggire neanche una singola occasione di assaporare quello che la vita le offre. Dopo essere sopravvissuta a svariati matrimoni decide però di iniziare a condurre un’esistenza più moderata. L’unico inciampo, non del tutto involontario, avviene quando San Sanyč, il figlio di una sua amica da sempre segretamente e perdutamente innamorato di lei, si ritrova nel suo appartamento per riparare una finestra e l’astinenza professata fino a quel momento si prende una piccola pausa. Per giorni poi Gulja non fa che raccontare con svogliata nonchalance l’avventura vissuta nella speranza di provocare gelosia e ammirazione nelle amiche:
Quindi, sollevata col dito medio la palpebra che negli ultimi anni si era fatta cadente, osservava attenta l’espressione sul volto dell’amica, per non lasciarsi sfuggire quell’ultimo granello di una festa capitata in maniera assolutamente imprevista.
Simka era approdata in quel cortile di Mosca sospinta da una delle ondate migratorie dell’anteguerra. Un carrettiere l’aveva scaricata – sparuta, il naso lungo, le calze a fisarmonica sulle gambe secche e grossi stivali da uomo – e poi se n’era andato lanciando sonore bestemmie.
Con lei solo un piumino, due cuscini e Bron’ka, sua figlia. Le due prendono residenza nella loro nuova casa, uno sgabuzzino all’interno dell’appartamento di una vecchia signora, e ben presto Simka si amalgama alla fauna di miserabili che popolano il cortile anche grazie alla sua lingua tagliente e al suo atteggiamento bonario. Ciò di cui la donna va estremamente fiera è Bron’ka, una creatura del tutto singolare, che poco ha a che fare con il cipiglio e l’aspetto della madre. La ragazza è infatti di una bellezza particolare: fulvi capelli le incorniciano le guance, occhi grandi e dorati e uno sguardo rivolto sempre altrove le impreziosiscono il viso. I guai si presentano alla porta dello stanzino di Simka quando scopre della gravidanza della figlia la quale, del tutto seraficamente, la porta a termine a dispetto di tutto. Nonostante le urla e il confinamento di Bron’ka all’interno del bugigattolo, altre gravidanze si susseguono con sconfortato e sempre più sconfitto sconcerto della neo-nonna. Chi sarà il padre? O i padri? Solo la rivelazione finale di Bron’ka ce lo dirà (ma niente spoiler, non preoccupatevi!).
Zia Genele aveva un temperamento da militante, ma giacché in un modo o nell’altro in vita sua non le erano capitate grosse incombenze, le toccava di occuparsi di problemi relativamente insignificanti: in particolare di un giardino abbastanza vasto situato all’interno di un cortile. A dire il vero sarebbe stata all’altezza di pensare all’intero giardino, ma lei preferiva prenderne una parte più piccola e raggiungervi in compenso la perfezione. Zia Genele adorava la perfezione.
Genele vive nella miseria più nera ma non se ne rende conto perché vive esattamente come vuole. Convive con la sua povertà con fierezza, pensando addirittura che le visite dei parenti altro non siano che il giusto tributo alla sua compagnia e ai suoi saggi e del tutto non richiesti consigli e insegnamenti. Motivo di straordinario orgoglio è però la sua borsa, originariamente portata dalla Svizzera da una sua zia, che col passare degli anni aveva cambiato colore, dalla quale non si separa mai. Altro motivo di orgoglio è per lei festeggiare la Pasqua preparando un abbondante pranzo reso ancora più gustoso perché messo insieme grazie al suo spirito di contrattazione con i commercianti del mercato da cui si rifornisce. Genele vede però il suo piccolo e ordinato mondo crollare quando, nella preparazione della festa, finisce in ospedale. Qui la separano dalla sua vita che fino ad allora aveva viaggiato su binari ben precisi e, soprattutto, la strappano alla sua amata borsa. L’anziana perde non solo i pochi averi custoditi nella borsa ma anche la parola e la capacità di pensare e quello che era stato imbandito come banchetto pasquale finisce col diventare quello del suo funerale.
Il penultimo racconto è il più breve di questa raccolta e ci presenta la consueta visita di Asja Šafran alla sua cugina di secondo grado Anna Markovna. Ogni ventuno del mese Anna attende infatti l’arrivo di Asja, la parente povera, che va da lei per riscuotere il suo personale sussidio mensile che consiste principalmente in una busta piena di vestiti ancora in buono stato che, nelle sue mani, si trasformano inspiegabilmente in sempre nuovi e orribili capi d’abbigliamento:
Truccata in maniera sciocca, la testa leggermente tremolante, Asja si tolse il cappello color albicocca con su ricamati nastrini di seta nera, appartenuto un tempo ad Anna Markovna: questa le cedeva da una vita le sue vecchi cose e si era rassegnata ormai da tempo all’abilità con cui Asja, talvolta con un solo movimento delle agili mani, trasformava un suo abito rispettabile negli stracci di un pazzo.
Le storie di questo sgangherato cortile terminano con la vicenda di Zinaida che, ritrovatasi sola dopo la morte della madre, cerca di barcamenarsi come può con la sua pensione di invalidità che però non le è sufficiente per sopravvivere. Memore del consiglio datole dalla genitrice, la donna si reca in chiesa per chiedere l’elemosina ma i suoi vestiti, non rispecchiando l’immaginario comune del tipico outfit sfoggiato dai derelitti che tendono la mano alla ricerca di qualche spicciolo, le impediscono di racimolare qualcosa. Come se non bastasse i suddetti questuanti si sono spartiti da tempo ogni punto della chiesa e non permettono a Zinaida di invadere il loro territorio. La donna è poi perseguitata da un problema che affligge anche l’autrice di questo articolo:
Zinaida era debole, quando vivevano insieme spesso se la prendeva con la mamma, perché non le dava da mangiare: lei aveva un appetito incessante, era questa la sua malattia, e la madre cercava di porgli freno.
Tutto cambia quando Zinaida incontra Katja che la salva dall’attacco di un gruppo di accattoni e la aiuta a farsi strada in questo business. Katja le rivela anche una verità: bisogna accettare la propria condizione svantaggiata. Il Signore ha creato persone come loro due affinché le persone trovassero conforto e consolazione nel vedere chi sta ancora peggio di loro.
Ulickaja dipinge magistralmente i ritratti di queste donne e delle rispettive vite nella loro eccentrica quotidianità. Il suo è uno sguardo che non giudica ma che si limita a registrare le vicissitudini di questi personaggi che cercano di destreggiarsi come possono tra i loro rapporti con la famiglia e gli uomini, tra speranze disattese, sempiterne meschinità e piccole felicità.
Proprio come tutti noi.