Neo Edizioni: Beati gli inquieti di Stefano Redaelli
prìmula (non com. prìmola) s. f. [lat. scient. Primula, dal lat. mediev. primula, der. di primus «primo»]. Genere di piante primulacee con alcune centinaia di specie erbacee quasi tutte perenni, in prevalenza delle zone montane e subalpine dell’emisfero settentrionale: hanno foglie tipicamente in rosetta basale, fiori solitarî o disposti in ombrella, a corolla di colore variabile dal bianco al giallo, ma anche rosa pallido, rosso intenso o blu, e frutto a capsula deiscente in cinque valve, con molti semi. Dim. primulétta, con riferimento al fiore di una primula, o anche a una piantina di primula.
Da un po’ ciarlavamo sulla possibilità di aprire uno spazio sul Culturificio dedicato ai libri stessi, oltre che alle nostre recensioni. Leggere senza filtri (né fertilizzanti) le parole degli scrittori, invece che le nostre. All’inizio abbiamo pensato di pubblicare un estratto a libro finito, ma da parte nostra sarebbe stata solo un’altra forma infestante di affettuosa prepotenza.
La leggenda vuole che un anonimo amanuense, dimenticato dalla storia in una cantina, compili a ogni ora del giorno la nostra lista di libri recensibili. In un manoscritto a parte, dall’alba dei tempi, grazie al dono della chiaroveggenza ha annotato alcuni testi per farne un florilegio, una selezione di brani tratti da alcune nuove proposte della piccola e media editoria. A suo avviso, i più smaccatamente di qualità. Non si offendano gli esclusi, dunque: è colpa dell’amanuense.
Allora curiosando tra i titoli della sua lista abbiamo chiesto agli editori di scegliere un passo del libro che fosse essenziale, una talea insomma, per proporre ai lettori un florilegio di testi che quindi germoglieranno anche sul Culturificio – giusto per innestare su questo discorso l’ennesima immagine vegetale.
Come chiamare questo spazio? Siamo partiti appunto dall’idea di florilegio, composto formato dal latino flos floris «fiore» e legĕre «cogliere». Poi siccome si tratta di anteprime siamo arrivati a un determinato fiore, la primula, diminutivo primulétta, per noi al plurale e con un accento ribelle: primulètte.
Le primulètte saranno le prime letture dei libri che leggeremo, quelli che non ci vogliamo dimenticare. E per questo vogliamo seminarli prima che fioriscano tra gli scaffali delle librerie.
Se è vero che, come si legge in un trattatello settecentesco (Virtù della Brettonica, 1768), tra le proprietà medicinali di questo fiore troviamo «ristrignere le lacrime» e soprattutto «ferite recenti e fresche curare», speriamo che queste pagine possano portarvi gli stessi benefici.
Ecco la primulètta numero uno, Beati gli inquieti di Stefano Redaelli (Neo Edizioni).
Ci svegliamo alle 7:00.
Alle 7:30 facciamo colazione, mangiamo in vassoi di plastica. Latte, caffè, fette biscottate, burro, marmellata, biscotti, yogurt. Apparecchiamo e sparecchiamo.
Alle 8:00 Alessandra ci porta le medicine, ognuno riceve il suo bicchierino. Nel mio ci sono alghe, ma non lo sa nessuno, la forma delle capsule è la stessa degli psicofarmaci, cambia il contenuto. Le mando giù col caffè lungo, che in realtà è orzo. A metà mattinata andiamo al bar a prendere quello vero.
Poi si va a fumare. Tutti in fila per le sigarette.
Si ricevono dall’infermiera e non si può tenere il pacchetto per sé. Lo trovo sbagliato: accondiscendere a un vizio, controllandolo dall’alto. Si può fumare quanto si vuole, rovinarsi denti e polmoni a patto di chiedere il permesso.
Li osservo, ognuno con la sua sigaretta, e ho la stessa impressione di quando mi guardano o bevono. Si beve per bere, non per dissetarsi, si fuma per fumare, non per il piacere, si guarda per guardare, non per vedere. I gesti, fini a se stessi, staccati dal desiderio, dal senso, diventano assurdi.
Io non fumo, approfitto del momento per avvicinare Angelo, mi evita da quando sono arrivato. La dottoressa mi ha detto che non ha reagito bene alla preghiera che gli ho fatto avere, l’ha letta con sospetto e gliel’ha restituita.
È seduto sulle scalette dell’ingresso, dove si mette di solito a fumare, a parlare da solo, la testa abbandonata in avanti. Tento un approccio diverso, salto i saluti; fino ad ora ha risposto tacendo, cambiando strada. Vengo al dunque.
«Ho scoperto cose interessanti sui deserti».
Alza la testa, esita prima di rispondere.
«Ha piovuto sul Sahara, c’è stato un acquazzone, ha piovuto, me lo ha detto l’FBI, non posso dire nulla».
«Di me ti puoi fidare».
Abbozzo un sorriso di complicità. Non deve essermi venuto bene, Angelo rimane serio.
«Cosa porta nella valigia?»
«Quale valigia?»
«L’ho vista entrare con la valigia».
«I miei vestiti, qualche libro. Resterò una settimana».
«Cos’è per lei, un’avventura o la realtà?»
Non rispondo, temo di dire una cosa sbagliata.
«Io la sto osservando».
«E cosa hai scoperto?»
«Lei è una spia».
«Non sono una spia, sono un paziente».
«Lo dimostri».
«Cosa devo fare?»
«Deve superare un test, venga con me».
Andiamo dalla dottoressa a chiedere le chiavi dell’ufficio di Angelo. Lo tiene chiuso, nessuno può entrarci senza il suo consenso, neppure lui senza quello della dottoressa.
«Fai vedere ad Antonio i risultati delle tue ricerche?»
«Prima il test. Potrebbe essere una spia».
La dottoressa apre la porta dell’ufficio e ci lascia soli.
Sulla parete destra ci sono due vecchi armadi, su quella sinistra una libreria spoglia di libri e una cartina geografica, su quella di fronte solo una finestra, vis à vis una poltrona e una scrivania a elle. Il lato lungo è coperto da fogli a righe e a quadretti. Provo a leggere cosa c’è scritto; tratti incerti e tremuli, di lettere e cifre, si uniformano in una scrittura vagamente ideogrammatica. Da sotto i fogli spuntano un righello e una calcolatrice. Sul lato corto della scrivania c’è un portatile con i tasti mancanti, se ne vedono alcuni per terra sotto la poltrona, altri vicino al computer.
«Io uso la tastiera del computer come un pianoforte. È un nuovo metodo di scrittura, l’ho inventato io. Guardi».
Colpisce la tastiera con entrambe le mani, le dita sono artigli rigidi. Poi le distende, apre i palmi. Ora la sfiora appena, asseconda col capo una musica che solo lui sente.
«Lei non ci provi, non ci riuscirà».
Smette di scrivere, inizia a rovistare tra i fogli. Ne tira fuori uno scritto al computer, è il TEST dell’FBI.
«Ce l’ha una penna?»
«Sì».
«Si sieda, risponda con calma, senza pensare».
Faccio come mi dice. Alla sesta domanda ho qualche istante di esitazione: “In acqua madre riconosci se esiste un Dio oppure se esiste l’infinito?”
Azzardo una domanda.
«L’acqua madre è la Madre della pioggia?»
«Non esiste la Madre della pioggia».
«Hai letto la preghiera che ti ho trascritto?»
«Lasci perdere le preghiere. Finisca il test».
Gli porgo il foglio. Angelo lo guarda assorto, come si osserva un’immagine più che come si legge un testo.
«Bisogna fare satelliti, non per trovare l’acqua, per trovare il cibo, quello che indico io, un nuovo tipo di cibo che nutre le persone in modo normale».
«Di che cibo si tratta?»
«Non ci arriva. Sarà ricercatore, professore, scrittore, ma non ci arriva».
Angelo sorride, scuote la testa.
«Io ho trovato la soluzione».
Vorrei chiedergli a quale problema: edificare il deserto, curare il morbo di down, nutrirsi in modo normale?
Ha ragione Angelo, non ci arrivo. Non riesco a seguire l’evoluzione del suo pensiero, le continue inattese connessioni.
«L’ho delusa?»
La domanda mi sorprende più delle precedenti: credevo piuttosto il contrario. Penso piuttosto di essere io ad averlo deluso.
«Perché avresti dovuto deludermi?»
«Non c’è riconoscenza. In manicomio non si mettono i geni, i geni non devono stare in manicomio con i matti. Non c’è riconoscenza. Non c’è più riconoscenza».
Vorrei dire o fare qualcosa, trovare il gesto, le parole giuste, se ci fossero. Mi viene in mente solo una frase stupida, di cui mi pento mentre la formulo.
«Andiamo a fumare?»
Angelo si alza ed esce come un automa.
Lascia la porta aperta, le chiavi nella serratura. Prima di uscire raccolgo due fogli dalla scrivania. Spero non se ne accorga, potrebbe reagire male.