“Note invernali su impressioni estive” di Fёdor Dostoevskij
decostruzione del sogno europeo
Che vi descriverò mai? Che potrò raccontarvi di nuovo, d’ancora sconosciuto, di non raccontato già d’altri? Chi di tutti noi russi (cioè di quelli fra noi che leggono almeno le riviste) non conosce l’Europa due volte meglio di quanto non conosca la Russia? E due volte l’ho detto, qui, per gentilezza, perché si tratterà certo d’un dieci volte.
Che vi sia da sempre un filo sottile che lega la Russia all’Occidente è cosa risaputa. I viaggi dei russi in Europa sono estremamente frequenti e la letteratura, che sia finzione romanzesca o verità biografica, almeno dal Settecento a oggi, ne conta moltissimi.
L’avventura narrata da Fёdor Dostoevskij nelle sue Note invernali su impressioni estive (Zimnie zametki o letnich vpečatlenijach) – pubblicate inizialmente nel 1863 sulla rivista «Vremja», diretta assieme al fratello, poi ristampate in un unico volume nel 1865 e tradotte per Feltrinelli da Serena Prina –, trattandosi di una narrazione autobiografica, rientra in questa seconda tipologia e rappresenta il rovescio della medaglia di un secolo precedente, del viaggio di Carlo Fredduzzi nella Russia sovietica che i nostri lettori forse ricorderanno. All’età di quarant’anni, ansioso di scoprire quella realtà incantatrice decantata dai compatrioti e curioso di capire perché l’Europa avesse una così forte attrazione sui russi, Dostoevskij riesce finalmente a varcare il confine.
Come ricorderete, il mio itinerario me l’ero combinato fin da prima, quand’ero ancora a Pietroburgo. All’estero non c’ero stato mai nemmeno una volta; e vi anelavo fin quasi dalla mia prima infanzia.
Eppure, man mano che si addentra nel vecchio mondo, davanti agli occhi dello scrittore russo il sogno europeo va in frantumi. Dresda, Berlino, Colonia, Parigi, Londra, Ginevra, Genova e Firenze: questi sono solo alcuni dei luoghi in cui l’autore soggiorna, nell’estate del 1862, durante il suo primo viaggio in Europa. Non ci vuole molto perché le sue aspettative vengano deluse e già a Berlino rimpianga di aver affrontato una tale fatica solo per ritrovarsi nell’esatta riproduzione di Pietroburgo, la città da cui è «scappato di gran fretta».
Note invernali su impressioni estive è il racconto di un’amara e sgradevole esperienza che ingombra i pensieri di Dostoevskij di riflessioni sul rapporto del popolo russo con il mondo occidentale. Quello compiuto dallo scrittore non è un viaggio di istruzione o di conoscenza, ma di «conferma di idee e convinzioni», come sottolinea nell’introduzione al libro Stefano Garzonio. Nel visitare le città europee il legame con la patria si rafforza, trova la sua ragione d’essere nell’esaltazione della počva (“suolo”), intesa nella sua accezione più sacra, e dell’umile popolo a essa devoto, puro e semplice, mandato in rovina dalla decadenza morale dell’élite con lo sguardo evidentemente troppo rivolto a Ovest.
È possibile che esista davvero una qualche combinazione chimica dello spirito umano col suolo natio, per la quale da questo suolo non ci si può staccare in alcun modo, e anche se ci si riuscisse, comunque vi si fa ritorno?
Intrise di pregiudizi spesso ingiusti, dovuti anche alla rapidità dei soggiorni, le Note presentano un’aspra critica a una società permeata dal materialismo. Se si trovasse per caso questo libretto dostoevskijano tra gli scaffali di una libreria si potrebbe pensare a una cronaca di viaggio. Ma si sa, non è bene giudicare un libro dalla copertina e Note invernali su impressioni estive è a tutti gli effetti un resoconto polemizzante e anti-borghese, un compendio di episodi di smascheramento e denuncia che sembra proseguire sulla falsariga dell’avventura settecentesca, seppur entro i confini patri, descritta da Aleksandr Radiščev nel suo Viaggio da Pietroburgo a Mosca.
Accumulare una fortuna e possedere la maggior quantità possibile di cose: questa è diventata la principale norma di moralità, il catechismo del parigino. Questo accadeva anche prima, ma adesso, adesso ha acquistato un aspetto, per così dire, sacrosanto. […] Adesso bisogna, bisogna accumulare i soldini.
A rilevare vizi e difetti della civiltà europea e del modello borghese è l’occhio cinico e sarcastico, ma soprattutto straniero di Dostoevskij. Straniero e non estraneo, dal momento che lo stile di vita all’occidentale aveva permeato la Russia e messo radici nell’intelligencija, allontanandola dalla cultura tradizionale e aumentando il divario con il popolo.
Persino al popolo è venuto da vomitare a guardarci. Adesso il popolo ci considera completamente stranieri, non capisce nemmeno una delle nostre parole, non uno dei nostri libri, o dei nostri pensieri – e tuttavia questo è pur sempre progresso, lo vogliate o no. Adesso noi a tal punto disprezziamo il popolo e i suoi principi che nel riferirci a lui mostriamo sempre una certa qual schifiltosità.
Gli anni Sessanta dell’Ottocento, gli stessi in cui videro la luce Memorie del sottosuolo (1864) e Delitto e castigo (1866), rappresentarono per lo scrittore un periodo di intensa filosofica su se stesso e sull’essere umano. Non è un caso che i suoi appunti preparino la strada a una meditazione più ampia sull’esistenza e che, già qui, l’autore incominci ad analizzare l’uomo russo nella sua evoluzione socio-culturale, con l’obiettivo di illustrarne in primis la superfluità, servendosi di tipi psicologici ripresi dai classici della letteratura.
L’uomo russo di metà Ottocento è colui che fugge verso l’Europa in cerca di un angolino consolante, sul cui volto tuttavia è stampata un’espressione costante di angoscia e inquietudine. Dietro le sfavillanti facciate di sbalorditive città-illusioni, dietro la menzogna della superficialità si cela una realtà del tutto diversa. Non resta che chiedersi, allora, dove si stia meglio. Allo stesso modo, Dostoevskij si mostra qui nella sua duplicità ideologica, tra universalismo e nazionalismo, adottando quel procedimento dialogico che vede il protagonista confrontarsi con una voce biliosa, in cerca di riscatto e riconoscimento.
Anticipazione di quella che sarà la produzione letteraria successiva, le Note forniscono la chiave di lettura dei grandi romanzi dove, come suggerisce Garzonio, «le evidenti contraddizioni […] debbono essere ricondotte a quell’esperienza dell’abisso che da esperienza individuale, personale, diviene anche attraverso il dialogo tra autore e narratore, attraverso il principio dialogico e drammatico, esperienza ambivalente, letteraria, estetica e dunque genuinamente universale».