Odio i vegani
A nessuno, solitamente nemmeno ai tuoi familiari, interessa quante proteine ingerisci fino a quando non diventi vegano. Cosa succede alla vita delle persone che scelgono una dieta priva di carne e derivati animali? Questa domanda il più delle volte passa sullo sfondo, ci si chiede come possano vivere senza il gusto della carne al sangue, senza condire la pasta con il formaggio, ma difficilmente si pensa a cosa implichi veramente questo stile di vita. Parlo di stile di vita perché deve essere chiaro che chi sceglie consapevolmente di diventare vegan non limita le sue scelte etiche alla sfera nutrizionale. Per intenderci meglio la definizione di vegan venne coniata in Inghilterra nel 1944 quando Donald Watson e Elsie Shrigley fondarono la Vegan Society come alternativa più completa e radicale rispetto alla Vegetarian Society già esistente, dalla quale si allontanarono per restituire piena dignità agli animali, rifiutando anche i loro derivati. Il termine fa riferimento a una scelta etica che rifiuta qualsiasi genere di sfruttamento e violenza nei confronti degli animali, dal consumo delle loro carni e derivati, al loro uso nella sperimentazione scientifica, passando per il loro impiego nell’intrattenimento umano e nella cosmesi, fino al loro utilizzo come capi d’abbigliamento. Va necessariamente sottolineato che, in quanto animale, anche l’uomo è incluso nella sfera etica vegana; la regola di fondo è quella di non nuocere a nessun animale, senza preferenze o antipatie.
È proprio dopo aver spiegato cosa il veganesimo – o veganismo – comporti che solitamente arrivano le prime domande: “Ma allora non mangi niente?”, “il tuo medico cosa dice?”, “dove troverai le forze per stare in piedi?”. Sono tutte domande lecite ed è bello che le persone si interessino alla salute altrui ma forse, forse, il punto qui non è propriamente la salute. Non sembra esserci un interesse per lo stato psicofisico dei vegani, sembra più un tentativo di dissuasione o, in certi casi, di allontanamento. Come vive una persona – perché è questo che sono – che sceglie questo tipo di condotta? Vive eticamente, secondo un’etica non violenta, inclusiva, rispettosa della dignità altrui e dell’ambiente; ecco come vive. Questa affermazione potrebbe apparire fastidiosa, forse snervante, per coloro che non condividono questa scelta; ed è proprio qui che volevo arrivare, al fastidio. Mio papà dice che quando si parla di politica si finisce sempre a discutere e, ahimè, ha ragione; ma che cosa ricade sotto la sfera politica? Come posso parlare liberamente di quello in cui credo, di cosa voglio e posso fare per cambiare il mondo, senza parlare di politica? Pare che la politica sia ovunque, e allora eccolo lì, il fastidio.
Ogni stato è una comunità e ogni comunità si costituisce in vista di un bene
diceva Aristotele (Politica I, 1, 125a), un bene collettivo, che ci coinvolge tutti e che chiede il nostro impegno e assenso. Quando una persona sceglie di limitare, per quanto è in suo potere, la sofferenza altrui quasi sbadatamente si trova in un impasse imprevista perché la nostra tradizione e le nostre leggi legittimano e sostengono, complici del mercato capitalistico, lo sfruttamento degli animali non umani; così una scelta personale si rivela come scelta politica, forse la più radicale.
Facciamo degli esempi: se due persone si trovano a parlare di un film diretto da terzi potranno non avere le stesse opinioni, potranno divergere sulle scelte della regia e sulle abilità degli attori e delle attrici, ma difficilmente prederanno il confronto come un’offesa. Quando due persone si trovano a parlare di abusi, dignità, potere e diritti le cose vanno diversamente; si creano fazioni, si diventa militanti. A prescindere che l’oggetto del discorso siano umani o animali ci si schiera, il più delle volte, di pancia; e allora ecco che il veganesimo, guardandolo attentamente, si rivela inclusivo: ci coinvolge radicalmente come animali, come attori morali e come zoon politikon, per citare ancora Aristotele.
Che cosa infastidisce dei vegani, cosa fa dire io odio i vegani?
Il fatto che, più o meno implicitamente, ci provano che una vita senza la violenza verso gli animali è possibile: si assumono abbastanza proteine, si mangia in gran quantità, non si rinuncia al gusto e si hanno le forze per restare in piedi. Con le loro abitudini ci mostrano che non facciamo abbastanza. Pensiamo di non potercela fare con un’alimentazione del genere e, così, incolpiamo il cronista per il rigore sbagliato anche se “ambasciator non porta pena”. Negli ultimi anni si possono trovare cibi a base vegetale in molti ristoranti – cosa difficile, fino a una decina di anni fa, all’infuori di verdure e frutta – si sono moltiplicati i locali interamente vegani, si discute molto del tema e si assiste ad un crescente numero di persone che abbracciano questa scelta; tuttavia se è vero che la scelta vegana ha goduto di grande popolarità, altrettanto lo è dire che non ha goduto di grande rispetto. Con l’aumentare della sua notorietà questa è divenuta anche pretesto per azioni violente e discriminatorie, tanto da poter parlare a pieno titolo di “ vegefobia” (o vegafobia).
Il termine nacque nei 2001 in Francia durante il Veggie Pride dello stesso anno e sta ad indicare tutti i comportamenti di derisione, esclusione e violenza a danno di chi ha scelto uno stile di vita vegan. “Vegefobia” richiama all’orecchio tutte quelle forme di discriminazione che purtroppo siamo soliti incontrare: omofobia, transfobia, misoginia, xenofobia etc. Non a caso questo neologismo contiene la desinenza “fobia”; al pari delle altre forme citate, infatti, ha una valenza politica siccome manifesta una denuncia nei confronti delle pratiche discriminatorie verso i soggetti interessati – in questo caso i vegani e i vegetariani – al fine di contrastarle: è una resistenza pubblica, e non meramente privata, volta a sancire formalmente la delegittimazione di tali atti.
La nascita di questo termine, oramai in voga seppur molto dibattuto, testimonia la profonda repulsione che l’etica vegana produce; ancora, il fastidio. Pensiamo ai vegani come una categoria statica, compatta e indifferenziata, li appelliamo con i più svariati cliché, come romantici, illusi, a volte anche come misantropi o buonisti; ma la verità è che ci sono romantici, illusi, misantropi e buonisti anche tra i non vegani. L’idea che è passata del “vegano medio” è una costruzione dettata più dalla paura per il confronto, dall’ignoranza e dalle abitudini, piuttosto che il riflesso puntuale dei fatti. Si può diventare vegan per vari motivi che potremmo, per comodità, far ricadere in due insiemi: i motivi indiretti – come la salute, la moda e l’ambiente – e quelli diretti, cioè per la tutela della dignità e della vita animale tutta.
La scelta vegetale viene il più delle volte tollerata quando è seguita per motivi indiretti, o per un breve periodo di tempo, quasi come un detox stagionale, ma largamente derisa e ostracizzata quando risponde a delle esigenze morali e politiche; come a dire che ricercare coerenza morale sia più riprovevole che seguire una moda. I casi di vegefobia toccano molti aspetti della vita delle loro vittime, si percepiscono gli insulti, amplificati dai social con le loro tastiere sempre pronte all’attacco, si viene derisi pubblicamente, guardati con compassione come dei “poverini” e, sfortunatamente, la violenza non si ferma sempre alla sfera psicologica; il tutto per cosa? Per avere chiesto visibilità e rispetto per altre forme di vita.
Questo quadro dovrebbe far risaltare le somiglianze con le altre forme di discriminazione, nonostante le dovute differenze. Perché se non siamo disposti ad accettare la xenofobia dovremmo accettare la vegefobia? Molti anni fa pareva normale, ed era socialmente accettato, discriminare per il colore della pelle, era una questione culturale, era quasi un folklore nazionale; tuttavia oggi la grande maggioranza di noi si guarderebbe bene dal fare commenti razzisti con la stessa goliardia di quegli anni. Abbiamo incluso nella sfera di considerazione morale le persone con un colore della pelle diverso dal nostro grazie alle loro lotte, alle loro rimostranze, grazie anche a chi, bianco, li ha sostenuti in questa doverosa e ammirabile fatica. Allora perché non lasciare che chi chiede l’attribuzione di status morale per tutti gli animali venga rispettato nella sua impresa? È una sua fatica, è una sua scelta. Ma è proprio qui che, ancora, ci infastidiamo, quando ci si para di fronte una fatto che ci obbliga a scegliere contro voglia, a cambiare contro ogni nostra abitudine e farci interpreti della voce dei più deboli.
“Perché non pensiamo prima ai bambini che muoiono di fame?”, certo, pensiamo anche a loro. Lo ripeto e lo chiarisco, non si può pensare che l’etica si esaurisca nella scelta alimentare, anzi, non si può proprio pensare che si esaurisca; è una costante nella vita di tutti noi che ci accompagnerà, volenti o nolenti, per tutto il nostro cammino, persino quando sceglieremo di non prendere posizione.
Le argomentazioni silenziatrici che tentano di oscurare la portata etica e la sovversione della scelta vegana non sono altro che prese di distanza. Si pensa che l’unico orientamento – perché è un orientamento – alimentare lecito, e quindi normativo, sia quello onnivoro; si discriminano tutti quelli che non lo accettano per la violenza che comporta; si crede che sia nella natura delle cose mangiare ed essere mangiati, ma solo e sempre se a mangiare è l’uomo e ad esser mangiati sono gli animali non umani; si pensa che non esista una questione animale da dirimere, che non vi sia un sistema organizzato e feroce di sfruttamento animale e quindi che non ci sia motivo di preoccuparci del benessere delle altre specie; si crede che noi, singolarmente, non abbiamo colpe né responsabilità di fronte a questi massacri.
È la negazione il motore della vegefobia; ma negare l’evidenza, che in questo caso passa sotto gli occhi di tutti nei banchi frigo dei supermercati, è l’inizio di un allontanamento non solo dal problema iniziale, ma dalla stessa moralità. I problemi politici e morali non smetteranno mai di coinvolgerci, di venirci a bussare per chiederci partecipazione. Metterci i tappi nelle orecchie o inveire contro chi ce li toglie non li farà scomparire, ma piuttosto peggiorerà le condizioni di molte vite, incluse le nostre. Ci vuole coraggio per ascoltare delle utopie, ma forse ce ne vuole di più per non averne.