Daniele Lisi
pubblicato 7 anni fa in Letteratura

Palazzeschi e il suo Lavoretto assai enigmatico:

appunti per una lettura lacaniana dell’opera

Palazzeschi e il suo Lavoretto assai enigmatico:

Nel giugno del 1967, presso i tipi di Mondadori, è stato edito il terzultimo romanzo della carriera letteraria di Aldo Palazzeschi (1885-1974), Il doge. Per due ragioni tale opera, alla quale l’autore amava appellarsi come a «un lavoretto assai enigmatico» 1 , è significativa nella cronologia palazzeschiana: 1) sopraggiunse dopo quattordici anni dall’ultimo romanzo, Roma (1953); 2) agì da humus fertile sia per gli ultimi due romanzi, Stefanino (1969) e Storia di un’amicizia (1971), che per le ultime due raccolte poetiche, Cuor mio (1968) e Via delle cento stelle (1972).
Se nel Codice di Perelà (1911) Palazzeschi ha narrato le vicende di un uomo di fumo, di «un uomo», come il critico John Picchione ha recentemente chiosato, «senza corpo»2 , lo stesso ha fatto nel Doge, attingendo, però, a scenari propriamente beckettiani e kafkiani. Nel caso dell’opera presa in esame, si è trattato di un personaggio protagonista – il doge, per l’appunto – che, sebbene annunci la sua presenza al popolo veneziano, manca ripetutamente agli appuntamenti prefissati. La Venezia manniana e dannunziana diviene, dunque, un palcoscenico sia grottesco che inquietante: noi lettori ridiamo, ma compatiamo i veneziani, che, parimenti a Vladimiro ed Estragone alle prese con Godot e a K. alle prese con Klamm, si chiedono – quasi salmodiandolo e all’infinito – perché il doge non si affaccia? A causa di questo enigma si sussegue una pioggia d’ipotesi da parte della folla, come se non vi fosse «nessuna attività […] più nobile» di quella, per citare le parole di Iperipotesi di Giorgio Manganelli (1922-1990)3. Tuttavia, ipotesi dopo ipotesi, l’enigma, il vuoto, continua a persistere e i cittadini si arrendono, affranti, a convivere con esso.
Il doge, citando il commento di Montale (1896-1981) del 1967, è un vero e proprio antipersonaggio 4, ma, già in altre occasioni Palazzeschi ha usato espedienti narrativi affini; i dechiriciani scenari delle primissime raccolte poetiche, Cavalli bianchi (1905), Lanterna (1907), Poemi (1909) e L’incendiario (1910), ne sono stati un esempio. Si è trattato, in questo caso, di poesie che si nutrono di oggetti o personaggi misteriosi, tali che il protagonista-poeta, analogamente ai veneziani, è condannato a un’eterna ripetizione con la speranza di decifrare l’enigma che ha di fronte.
Lo stesso avviene nel Codice di Perelà: la folla impara a convivere con un codice che non arriverà mai. Come Kafka (1883-1924) e Gadda (1893-1973), leggendo gran parte delle opere palazzeschiane, si ha l’impressione che, anziché costruirle, l’autore fiorentino si diverta a decostruirle; le sue sono opere, in particolare quelle filo avanguardiste, in cui è impossibile riattaccare la coda al mostro.
Anche i Romanzi della maturità (1934-1953), quelli filo-ottocenteschi, per intenderci, gettano luce sulla struttura narrativa del Doge: nelle Sorelle Materassi (1934), nei Tre imperi…mancati. Cronaca 1922-1945 (1945), nei Fratelli Cuccoli (1948) e in Roma (1953), Palazzeschi, malgrado le abbia relegate in secondo piano, aveva già sperimentato le peculiarità di quella stessa «inquieta e impaziente»5 folla presente nel Doge. In Roma e in Tre imperi…mancati essa attende l’apparizione rispettivamente del papa e del duce; nelle Sorelle Materassi, quella di Peggy, futura consorte di Remo, il protagonista del romanzo; infine nei Fratelli Cuccoli, nel bel mezzo di un processo giudiziario, quella dell’omicida Celestino Cuccoli.
Alla luce dei numerosi giochi enigmatici che Palazzeschi si è divertito a costruire nelle sue opere e del vuoto, con cui costringe i suoi personaggi a convivere – mi riferisco più specificatamente al Doge –, non è, a mio avviso, errato trovare un parallelismo con quel filone di pensiero volto a interpretare l’esistenza umana come strutturata sul vuoto.
Assieme a Jean Paul Sartre (1905-1980), Jacques Lacan (1901-1981), noto psicoanalista parigino, protagonista della koinè strutturalista, emulatore del pensiero freudiano e, visti il suo interesse e la centralità che la letteratura assume nelle sue teorie, critico letterario, ne è uno dei massimi interpreti.
Esistere, in un’ottica lacaniana, significa perdere, significare mancare. Parlando dell’esistenza umana, Lacan ha usato una tipica espressione sartriana: manque d’être (mancanza d’essere). L’essere umano deve abituarsi a convivere con il suo vuoto, a convivere, vale a dire, con i suoi interrogativi esistenziali (Chi sono io? Che senso ha esistere? Perché esisto? etc. etc.), cui non ci sarà mai risposta, in caso contrario, infatti, significherebbe morire, trovare il proprio enigma significa morire. Non a caso Lacan, rileggendo la teoria freudiana sulla pulsione di morte (Todestrieb in tedesco), ha ritenuto che la vita pensasse a morire6. Frase, che tradotta, significa che la vita brama di tornare a al suo stato inorganico, alla fusione materna; una condizione vitale ed esistenziale, quindi, in cui non ci sono enigmi, poiché si è un tutt’uno col corpo materno.
L’intangibilità del doge sommata all’automatismo di ripetizione (Wiederholungzswang) della folla, desiderosa di risolvere l’enigma del doge, a mio giudizio, è una diretta metafora delle paradossali peculiarità dell’esistenza umana. Come noi esistiamo senza mai comprendere il nostro enigma, il senso della nostra vita, così la folla veneziana con il suo doge. Il romanzo, se visto da questa prospettiva, trova una conferma nel testo stesso. Palazzeschi nel luogo narrativo – non molto lontano dall’epilogo – che mi accingo a mostrare, ha offerto un commento esemplificativo rispetto a quanto detto poc’anzi:

Quello che appare la causa massima di un disordine irreparabile e di una irreparabile rovina [la mancata presenza del doge], è la salvezza medesima, la molla che l’uomo ha in sé e che al momento opportuno con una puntualità che impressiona ed una precisione matematica scatta, come il più accreditato orologio della Svizzera […] la condotta del Doge rappresentava […] quanto di meglio e più edificante in tale materia si potesse raggiungere, sia in riferimento alla vita pratica […] come per quello che riguardava la vita dello spirito di ogni persona. 7

Il microcosmo veneziano, che l’autore fiorentino dipinge, decisamente antitetico alla realtà di tutti i giorni, cela al contrario tra la sua filigrana profonde riflessioni. La letteratura in tal caso ha una precisa funzione: spiega i paradossi dell’esistenza dell’essere umano, addolcendone, con giochi formali, la loro messa in scena. Ma, d’altronde, Palazzeschi aveva già compreso tutto ciò e, inversamente a chi lo ha descritto come un semplice artista fautore di divertimenti fini a sé stessi, gradirei congedarvi con queste parole presenti nel Codice di Perelà – e badate bene che qui siamo dinnanzi al manifesto della sua estetica! -: «bisogna dire delle cose stupide per essere profondi»8.


 

A. Palazzeschi a A. Mondadori, (Roma, 17 dicembre 1966), Fondazione Arnoldo e Alberto Mondadori, Milano cit. in G. TELLINI, Il doge, in Notizie sui testi, in Aldo Palazzeschi tutti i romanzi, Vol. II, Milano, Mondadori, 2005, p. 1546.

2 J. PICCHIONE, Palazzeschi: il soggetto in fumo? In L’arte del saltimbanco. Aldo Palazzeschi tra due avanguardie, Atti del convegno internazionale di studi (Toronto, 29-30 settembre 2006), a cura di Gino Tellini, Firenze, SEF, 2008, p. 225.

3 G. MANGANELLI, Iperipotesi, in Gruppo ’63. 34 scrittori, Palermo 1963, Milano, Feltrinelli, 1964, p. 259.

4 Cfr. E. MONTALE, Il doge, in «Il Corriere della Sera», (4 giugno 1967), p. 11.

5 A. PALAZZESCHI, I fratelli Cuccoli (1948), in Aldo Palazzeschi tutti i romanzi, Vol. II, cit., p. 325.

6 Cfr. J. LACAN, Il seminario, libro II. L’io nella teoria di Freud e nella tecnica della psicoanalisi 1954-1955, testo stabilito da Jacques Alain Miller, a cura di Antonio Di Caccia, Torino, Einaudi, 2006, p. 268.

7 A. PALAZZESCHI, Il doge (1967), in Aldo Palazzeschi tutti i romanzi, Vol. II, cit., pp. 786-7.

8 ID., Il codice di Perelà (1911), in Aldo Palazzeschi tutti i romanzi, Vol. I, a cura e con introduzione di Gino Tellini e un saggio di Luigi Baldacci, Milano, Mondadori, 2005, p. 48.