Anita Orfini
pubblicato 5 anni fa in L'angolo russo

Piccole trascurabili rivoluzioni

“Il biglietto stellato” di Vasilij P. Aksënov

Piccole trascurabili rivoluzioni

Crede di essere un’eccezione, un fenomeno complicatissimo. A tutti è capitato di pensarlo. Anch’io allora avevo voglia di andarmene. Io ne avevo voglia, ma lui se n’è andato davvero.

Quando si parla di letteratura russa si è generalmente portati a pensare a classici come Puškin, Dostoevskij, Tolstoj, grandi nomi che a volte però tendono a incutere soggezione e a scoraggiare il lettore digiuno di romanzi pieni di patronimici. È proprio per questo che ho deciso di inaugurare la nuova rubrica del Culturificio presentando un romanzo (o meglio una povest’, vale a dire un romanzo breve o racconto lungo) che potesse avvicinare tutti alla scoperta di questa letteratura – amata da molti e da alcuni temuta. L’opera di cui vi parlerò nelle prossime righe è di un autore dei cosiddetti šestidesjatniki, ovvero di quella generazione di scrittori attiva dagli anni Cinquanta e Sessanta del Novecento, tale Vasilij P. Aksënov, e la povest’ incriminata si intitola Il biglietto stellato (Zvëzdnyj bilet, tradotto da Claudio Masetti per Mondadori nel 2009). 

Apparso a puntate sulle pagine della rivista Junost’ (Giovinezza) nel 1961, Il biglietto stellato era destinato a diventare un vero e proprio best seller e il punto di riferimento per i giovani degli anni della ottepel’, ovvero del disgelo. Il successo dell’opera fu decretato non soltanto dall’irruzione nella narrazione della quotidianità dei protagonisti, giovani studenti la cui unica certezza è l’incertezza del proprio avvenire, ma anche e soprattutto dalla presenza di un eroe che può finalmente porsi delle domande. Se il realismo socialista aveva imposto un canone al quale gli scrittori dovevano attenersi, Aksënov rivoluziona la prosa portando alla ribalta un eroe che non è più completamente positivo. I suoi protagonisti parlano una nuova lingua che rispecchia la loro generazione e, al contrario dell’homo sovieticus che aveva già tutte le risposte, possono dubitare, mettere in discussione sé stessi e la realtà che li circonda. Furono però proprio queste caratteristiche, che ne decretarono il successo fra il pubblico giovanile, a scatenare invece aspre critiche da parte di coloro che tacciavano la povest’ di essere priva di una base ideologica. Ciononostante, l’anno seguente uscì nelle sale la trasposizione cinematografica dal titolo Moj mladšij brat (Mio fratello minore). 

La trama segue le vicende di due fratelli: Viktor (Vitja) ha ventotto anni, è un medico spaziale, sta scrivendo la tesi di dottorato, è fidanzato con Šuročka dalla quale aspetta un figlio, ha insomma un futuro ben preciso e già tracciato:

La tesi […] significa il mio lavoro, la mia speranza. La mia strada, difficile ma sicura. La strada che mi hanno preparato fin dall’infanzia. ‘Se farai il bravo ragazzo diventerai dottore’. Sono stato educato seguendo vari esempi positivi, poi sono diventato a mia volta un esempio positivo per Dimka. Mio fratello, però, se n’è fregato. Lui ha la testa piena di buffe romanticherie.

Sebbene il suo percorso sia già stato stabilito, Vitja ha comunque dei dubbi, mette spesso in discussione le proprie (ma sono davvero sue?) scelte. La sua incertezza è simbolicamente rappresentata da un elemento che dà il titolo all’opera. Dalla finestra della sua stanza, infatti, riesce a scorgere un frammento di cielo che di notte si riempie di stelle e nel quale Viktor vede un biglietto ferroviario destinato proprio a lui, ma la meta è ignota:

Ed ecco che a ventotto anni sono seduto nella mia stanza e guardo il mio biglietto perforato di stelle. […] Guardo dalla finestra e a volte mi accade di pensare che questo biglietto è destinato a me.

Dmitrij (Dimka), invece, ha diciassette anni, si è appena diplomato e non sa cosa fare della propria vita. La quotidianità a Mosca gli sta stretta, vuole affrancarsi da quell’esistenza preconfezionata che è invece toccata al fratello:

Credi che la tua vita sia il mio ideale? La tua vita, Viktor, l’hanno inventata mamma e papà quando eri ancora in fasce.

Lui e i suoi amici rappresentano quella generazione di giovani che vivono la propria adolescenza durante gli anni di una relativa apertura all’Occidente. Ecco infatti sfrecciare per le vie di Mosca automobili straniere, mentre dei ragazzi camminano sfoggiando jeans americani e ascoltano musica jazz.

La narrazione, suddivisa in quattro parti e affidata di volta in volta alla voce di uno o dell’altro fratello, si snoda sul tema del conflitto generazionale distribuito su tre piani: la ribellione di Dimka nei confronti dei genitori, lo scontro tra i due fratelli e la lotta di Viktor contro il suo capo. Un bildungsroman (pardon!) una bildungspovest’, dunque quella di Aksënov, che ci regala un affresco del clima culturale giovanile del tempo tramite il racconto di due piccole rivoluzioni: quella fallita di Dimka che da studente ribelle torna a casa adulto e con la valigia dei propri sogni ormai vuota; e quella riuscita, quantomeno a livello personale, di Viktor che trova la forza di scontrarsi con le istituzioni.

Il primo capitolo, che si intitola emblematicamente “Testa o croce”, introduce uno dei temi fondamentali della storia: la scelta. Dimka, difatti, una volta terminata la scuola, lascia che a determinare il proprio futuro sia l’imprevedibilità della sorte:

Abbiamo tirato una moneta e si è deciso. Basta! Vogliamo vivere a modo nostro.

Il ragazzo decide così di prendere e partire con i suoi amici Alik, Jura e Galja. I quattro lasciano Mosca per intraprendere un viaggio on the road alla volta dell’Estonia. Viaggio di formazione, il loro, che li porterà a cantare e ballare al ritmo del jazz nei bar estoni, a bere whisky, fumare sigarette americane, abbronzarsi in riva al mare e scoprire l’amore. A vivere liberamente, insomma. Con il passare dei giorni però i ragazzi, che si autodefiniscono “argonauti”, si vedono costretti a cercare un lavoro poiché a corto di soldi. Comincia così la loro avventura in un kolchoz a bordo di un peschereccio. Se in un primo momento però Dimka aveva creduto e sperato che il lavoro avrebbe potuto dare un senso e uno scopo alla propria vita, alla fine si accorge che le sue speranze vengono disattese. Nonostante l’attività nel kolchoz abbia riavvicinato lui e i suoi compagni di viaggio alla collettività dalla quale erano fuggiti, sopraggiunge ora una malinconica disillusione:

A essere sincero, fare il kolchosiano non mi entusiasma per niente. Non posso dire di aver realizzato il mio sogno… Ma qual è il mio sogno? Non lo so neppure io.

Nel frattempo, a Mosca, Vitja si trova a dover fare una scelta che cambierà per sempre la sua esistenza. Da studente e figlio modello si ritrova a mettere in discussione tutto e tutti dopo essersi reso conto che una serie di dati sui quali stava lavorando per la tesi di dottorato confutano non solo il suo lavoro ma quello dell’intera comunità scientifica. Nonostante il direttore che lo segue gli sconsigli di pubblicare questi nuovi risultati e di andare avanti con la tesi, Viktor si ribella. Di fronte a una scelta morale, Viktor decide di disubbidire. I ruoli dei due fratelli, dunque, si invertono: se all’inizio del racconto era infatti Dimka il personaggio ribelle, alla fine si ritrova costretto in quella stessa gabbia di obblighi e convenzioni dalla quale voleva fuggire ed è invece Viktor a prendere in mano la propria vita, a tracciare da sé la strada del proprio destino. È lui – e non il giovane Dimka – che osa veramente e, proprio per questo, cade. Morirà infatti in un misterioso incidente aereo.

Una volta tornato a casa dopo la morte di Viktor, Dimka si reca nella stanza del fratello e, scrutando il cielo, scopre anche lui il biglietto che tante volte Vitja aveva contemplato:

Sono sdraiato sul davanzale e guardo il pezzetto di cielo che Viktor guardava sempre. E all’improvviso mi accorgo che questa strisciolina oblunga di cielo sembra un biglietto ferroviario perforato di stelle.

Curioso. Chissà se Viktor se n’era accorto?.

Nonostante il suo percorso e la conseguente evoluzione che lo hanno portato a reinserirsi nella società dalla quale voleva tanto scappare, Dimka sembra non aver trovato veramente il suo posto nel mondo. L’opera si conclude infatti con una domanda, simbolo di quella piccola trascurabile rivoluzione personale dei due fratelli che, sebbene abbia significato un radicale cambiamento per entrambi, si esaurisce però con il ritorno all’ordine normativo tramite la scelta di un atteggiamento conformista da parte di Dimka e l’eliminazione fisica di Viktor. Il punto interrogativo finale, tuttavia, lascia un finale aperto su una vita, quella di Dimka come quella di tanti giovani, piena di incertezza per il futuro:

QUESTO ADESSO È IL MIO BIGLIETTO STELLATO

Viktor, lo sapesse o no, l’ha lasciato a me. Un biglietto, ma per dove?