Roberta Landre
pubblicato 4 anni fa in Gli animali che amiamo

Piedi e zampe. Primi passi verso un’etica animale

Piedi e zampe. Primi passi verso un’etica animale

La storia dello sfruttamento degli animali è necessariamente intrecciata alla storia del genere Homo, comparso sul pianeta circa 2,5 milioni di anni fa. Ma facciamo un passo indietro.

Il Big Bang, l’evento che si ipotizza a fondamento della nascita dell’universo, avvenne 13,8 miliardi di anni fa e solo 4,5 miliardi di anni fa si è formata Terra – all’epoca – e forse anche oggi – inospitale.

Per arrivare alla nascita delle prime forme di vita si dovettero verificare condizioni ben diverse da quelle iniziali e per molto tempo l’evoluzione procedette tra glaciazioni e altre catastrofi naturali. Solo in tempi più recenti, circa 4,5 milioni di anni fa, vi fu l’origine degli ominidi, quali gli australopitecini, che cedettero il passo gradualmente al genere Homo intorno ai 2,5 milioni di anni fa.

Quelli che possiamo considerare i nostri antenati più recenti, cioè esseri umani “moderni”, calpesteranno la terra non prima di 100.000 anni fa; solo a partire dal Paleolitico e dal Neolitico, la nostra specie iniziò a influenzare radicalmente tutta la biosfera.

Questo breve excursus serve a dare l’idea della vastità del tempo naturale che ci precede, cercando di inquadrare la nostra storia – e quindi le nostre pratiche – entro un contesto fisico in continua evoluzione che, se da un lato ci determina e plasma, dall’altro è anche oggetto delle nostre azioni – tecniche e simboliche –, azioni che modificano necessariamente non solo l’ambiente ma anche gli altri abitanti del pianeta.

Fin dagli albori l’Homo Sapiens, come ogni altra creatura vivente, interagì secondo i suoi bisogni con l’ambiente e le specie che abitavano le sue stesse nicchie ecologiche; non si limitò alla raccolta e alla caccia ma fu in grado, attraverso il fuoco prima e gli utensili poi, di predare in modo sempre più efficiente, massiccio e di gruppo. Via via che la storia procedeva acquisì tecniche complesse fino a giungere all’agricoltura: intere foreste e specie vegetali vennero tagliate e bruciate per assicurarsi provvigioni a lungo termine. Con queste innovazioni la specie Homo provocò drastici mutamenti sia nell’ambiente che agli animali, tanto da portarne all’estinzione migliaia in un lasso di tempo esiguo.

Con l’avvento della Rivoluzione neolitica, circa 12.000 anni fa, iniziarono i vari processi di domesticazione: il meccanismo mediante cui l’uomo iniziò a rendere altri viventi, animali e vegetali, dipendenti dalla nostra specie per la loro sopravvivenza. Prima di tutti, durante l’Età della Pietra, venne addomesticato il cane, insieme al frumento, all’orzo, alle pecore, ai piselli e ai suini; intorno a 6.000 anni fa, durante l’Età del Bronzo, con l’avvento delle prime civiltà, fu la volta di cavalli, bovini, cotone e olive; infine, appena 3.000 anni fa, anche i tacchini entrarono nella cerchia di dipendenza dell’uomo dell’Età del Ferro.

Un’addomesticazione e quindi una selezione inizialmente inconscia andò man mano specializzandosi diventando sempre più consapevole, portando l’uomo a dedicarvi gran parte delle giornate.

Già dai primi stanziamenti umani la nostra specie è passata da un’economia di procacciamento a una di produzione: per intenderci meglio, potremmo dire che se l’uomo era inizialmente raccoglitore e cacciatore – si limitava cioè a prelevare le risorse di cui aveva bisogno dall’ambiente in cui viveva – con la vita sedentaria divenne colui che non solo reperiva animali e vegetali dall’ambiente, ma li sceglieva e curava al fine di disporne per più tempo e con maggiore sicurezza, tramite la domesticazione e riproduzione. Questa tecnica non ci ha più abbandonato: fatta eccezione per alcune società, la grande maggioranza delle comunità umane ha dedicato un peso notevole all’allevamento e all’agricoltura, preferendole a una vita nomade alla ricerca di risorse spontanee.

Nei secoli successivi sono cresciute la capacità tecnica, la velocità e la pervasività dell’azione umana: a partire dalle prime forme di domesticazione preistorica siamo giunti agli allevamenti intensivi che ogni giorno, in un mercato globale, commerciano corpi animali.

Non solo. Più di recente, li plasmiamo geneticamente al fine di migliorarne le possibilità di utilizzo umano.

Tutte queste nuove pratiche verso l’animale fanno sorgere molte domande sull’uomo e sull’alterità.

Come sappiamo, la storia umana non è mai neutrale; è piuttosto lo svolgersi di fatti e lo sviluppo di valori che si condizionano a vicenda, un susseguirsi di relazioni tra gli eventi e l’interpretazione che l’uomo dà degli stessi fenomeni.

Jacques Derrida ci ricorda che l’iperonimo ‘animale’ non è altro che un termine “ombrello” che, privo di riferimento ontologico, annulla le diversità esistenti tra questo e quest’altro animale, o questa e quest’altra specie, in virtù di una generalità categoriale che le omologa e riduce a meri oggetti; come se non bastasse, la categoria «animale» è sempre stata connotata come il polo negativo da cui l’umano doveva prendere le distanze.

Gli specialisti parlano spesso di ‘antropopoiesi’, intendendo con questo termine il processo di costruzione dell’umano a partire dall’animale – inteso il più delle volte come mancante, limitato e spregevole ma anche come una parte, seppur meno virtuosa, della natura umana – e la divinità – valorizzata come polo positivo, ragione, natura eccellente e desiderabile all’interno dell’uomo.

Emerge a chiare lettere una tendenza a interpretare sé stessi e l’alterità in termini valoriali, attribuendo cioè caratteristiche, vantaggi e obblighi a ogni vivente a seconda dei criteri che l’uomo storicamente ha scelto di seguire.

I parametri assunti per sottolineare l’eccezionalità umana sono stati di volta in volta i più svariati – intelligenza, linguaggio, il possesso di un’anima, la capacità di giudizio morale etc. – ma tutti ci raccontano la storia di un’interrogazione dell’uomo su sé stesso e sulle creature con le quali si trova a vivere. Possiamo dire che l’indagine su che cosa siano gli altri viventi è stata sempre presente a tutte le civiltà umane proprio perché ha permesso all’uomo di determinarsi, di attribuirsi un valore; al contempo, però, presto è sorto il problema di quali comportamenti adottare nei loro confronti e di come giustificarli.

Ed è proprio in virtù di tali interrogativi, e delle risposte che si sono scelte, che abbiamo assunto nuovi comportamenti e legittimato atteggiamenti già presenti verso le altre specie.

A poco a poco che le nostre società mutano nel tempo abbiamo accesso a informazioni e dati sempre maggiori che, il più delle volte, sconvolgono le nostre convinzioni circa il mondo; basti pensare a come il passaggio da una concezione geocentrica – di origine aristotelica e tolemaica – alla teoria eliocentrica di Copernico, rivisitata da Galilei e Keplero, sconvolse la visione che l’uomo aveva di sé stesso.

Tutte le scoperte scientifiche, anche quelle apparentemente distanti dalla vita quotidiana, prima o poi influenzano la nostra visione del mondo e aprono nuovi interrogativi sul ruolo che rivestiamo all’interno dell’ecosistema.

Allo stesso modo i recenti studi sulle specie animali altre, tramite le scienze esatte e quelle umane, hanno permesso di conoscere l’eterogeneità del mondo animale da diverse prospettive. Questo ampliamento dello sguardo ha originato nuovi interrogativi.

Ad esempio, oggi sappiamo che gran parte degli animali sono senzienti, provano cioè piacere e dolore, si riconoscono come soggetti di bisogni e stati mentali propri e agiscono in virtù di comportamenti appresi.

Davanti a queste scoperte possiamo continuare a trattarli cartesianamente come fossero automi o kantianamente come meri mezzi? Non è una domanda di poco conto perché chiede a ognuno di noi di riflettere a fondo, di avere il coraggio di mettere in discussione le nostre convinzioni sull’eccezionalità umana, avvicinandoci al resto del regno animale. Dovremo cioè chiederci se non sia del tutto arbitrario imprigionare, uccidere e mangiare animali se questi soffrono, sono intelligenti, provano emozioni come noi.

Quello che le riflessioni morali ed etiche ci chiedono è una costante interrogazione dei principi e delle credenze che guidano, più o meno consciamente, le nostre azioni; è una richiesta che ha una valenza pratica e politica, oltre che speculativa.

Ci viene chiesto, siccome siamo esseri capaci di reperire informazioni sul mondo, di confrontare queste nuove conoscenze con il nostro bagaglio culturale e le nostre abitudini, di ripensare il nostro rapporto con gli animali e di far sì che i nostri comportamenti siano difendibili razionalmente.