Proboscidi curiose, cavalli matematici e sputi di scimmia
questioni di prospettive
Nel 1963 Nikolaas Tinbergen, allievo di Konrad Lorenz – con il quale dividerà il premio Nobel per la Fisiologia e la Medicina – formulò una nuova metodologia per lo studio del comportamento animale; un procedimento che integrava l’approccio meccanicistico-ontogenetico e quello adattativo-evolutivo.
Come nella ricerca scientifica, anche nel definire il comportamento c’era la tendenza a dare maggiore importanza o a fattori intrinseci basati sulla genetica e sul condizionamento stimolo-risposta, o alle interazioni tra individuo e ambiente. I due schieramenti e le rispettive definizioni erano impermeabili tra loro: per i primi il comportamento era il risultato di un’azione meccanica dove a ogni stimolo corrispondeva una certa risposta in virtù delle caratteristiche fisiche e genetiche dell’individuo; per i secondi, invece, il comportamento era da intendersi come prodotto della storia evolutiva e adattativa della specie in esame.
Tinbergen suggerì che, al fine di studiare in modo quanto più completo il comportamento animale, era necessario integrare le due prospettive.
Questo metodo, noto come “le quattro domande di Tinbergen”, comprendeva il livello delle cause prossime (relative ai meccanismi genetici, ontogenetici, neuronali e ormonali che sottendono allo sviluppo delle componenti dell’animale e che ne determinano le possibilità comportamentali) e il livello delle cause ultime (riguardanti la storia evolutiva e l’influenza che ha avuto su un certo comportamento).
L’approccio meccanicista-ontogenetico, caro al behaviorismo, veniva risolto nelle cause prossime, così come quello evolutivo-adattativo, vicino all’etologia, riusciva a essere accolto nelle cause ultime, permettendo di integrare entrambi i livelli di analisi in uno schema esplicativo complementare.
Tuttavia, se nell’Ottocento di Darwin si poteva parlare di sfera emotiva, capacità mentali e intelligenza degli animali, nel secolo successivo le cose sembrarono regredire a una noncuranza rispetto alla questione della cognizione animale.
Si insisteva con l’approccio meccanicistico tipico del behaviorismo, tralasciando anche solo di ammettere l’esistenza di stati interni – psicologici ed emotivi –, conducendo quindi esperimenti scientificamente infruttuosi che sembravano confermare la superiorità umana rispetto a ogni altra specie.
Il presupposto dell’impostazione comportamentista (behaviorista) presentava animali passivi che se premiati o disincentivati potevano apprendere svariati comportamenti. Ignorava però che l’addestramento e il condizionamento non possono produrre comportamenti per i quali l’animale non è predisposto, semmai agiscono rinforzando delle predisposizioni già presenti, dimostrando così che l’apprendimento non è qualcosa di universale con schemi e procedimenti fissi e uguali per ogni specie, ma piuttosto un’abilità specie-specifica e, come tale, diversa a seconda della storia evolutiva di ogni animale.
Tinbergen ebbe il merito non solo di coniugare le due correnti di pensiero rispetto al comportamento, ma soprattutto quello di portare l’attenzione sull’introspezione, quella macro-area emotiva e cognitiva che etologi e psicologi avevano adombrato fino ad allora, gettando le basi per i successivi sviluppi dell’osservazione animale, non più in laboratorio – o per lo meno non soprattutto – ma preferibilmente all’aperto, prediligendo i comportamenti spontanei a quelli indotti da sperimentatori e test nei laboratori.
Oggi si sente ancora parlare del comportamento animale come di qualcosa di interamente determinato dalla biologia, qualitativamente differente da quello umano, prodotto, invece, dall’apprendimento; sarebbe però più corretto dire che il comportamento nel regno animale –uomo incluso – è il risultato della componente biologica, di quella sociale riguardante l’apprendimento, e anche di quella cognitiva.
La cognizione non è altro che uno strumento, un’abilità, tale per cui l’organismo in modo attivo e autonomo, raccoglie, elabora e utilizza le informazioni che potranno rivelarsi utili in futuro. Con questa nuova definizione l’animale diventa attivo e presente non solo a sé stesso, ma all’ambiente e alle relazioni tra specie, smettendo così di essere una mera macchina.
Questo avvicinamento dell’etologia alla psicologia comparata permise di inaugurare una nuova stagione nello studio del regno animale, di ripensare i test ai quali si sottoponevano svariati organismi, concependoli non solo in base alle loro peculiari caratteristiche di specie, prestando attenzione anche della loro sfera cognitiva e delle loro relazioni.
Vorrei raccontare di alcuni esperimenti realmente avvenuti, per dimostrare come le nostre credenze e i nostri pregiudizi possano facilmente portarci a conclusioni errate, e riflettere sulla grandissima varietà e sulle molteplici capacità del regno animale di cui facciamo parte.
Per molto tempo gli scienziati rimasero convinti che gli elefanti –che vivono al livello del suolo e sono abituati a raccogliere oggetti tramite la proboscide – fossero incapaci di comprendere il problema che gli sottoponevano. Il test consisteva nel porre una banana fuori dalla portata della loro proboscide, frutto che poteva esser facilmente raggiunto se avessero avuto la capacità di usare utensili, come un bastone messo a loro disposizione dagli sperimentatori. Questi pachidermi fallivano sistematicamente l’esperimento e altrettanto sistematicamente si concludeva che non avessero le capacità cognitive sufficienti per svolgere l’operazione richiesta.
Finché non si comprese che questi animali, più che con la vista, orientano le loro ricerche grazie al loro mirabile olfatto; si scoprì così che se il bastone fosse stato raccolto avrebbe bloccato le narici, interrompendo la capacità esplorativa e conoscitiva dell’animale, rendendolo incapace di fiutare qualsiasi cibo o informazione esterna.
L’esperimento venne modificato e presentato, anni dopo e da diversi ricercatori, a Kandula, un elefante maschio con cui lavorarono Preston Foerder e Diana Reiss. Il test prevedeva che l’elefante si trovasse in prossimità di alcuni bastoni e di una cassa di legno e avesse appeso sopra di sé alcuni frutti, che poteva raggiungere utilizzando tutti gli strumenti a disposizione. Ne risultò una piena comprensione del problema e una vera scorpacciata: Kandula aveva ignorato i bastoni, preso la cassa di legno, ci era salita sopra e si era elevata all’altezza necessaria per raggiungere gli alimenti.
Il test rese evidente che l’uomo non è l’unico animale in grado di usare strumenti: vi sono svariate specie capaci di farlo, a patto che quando creiamo un esperimento teniamo conto delle caratteristiche tipiche dell’organismo in questione, immaginando problemi appropriati: come l’intelligenza umana è legata alla particolare conformazione della mano così quella degli elefanti è connessa alla morfologia della proboscide.
Verso la fine dell’Ottocento un cavallo di nome Hans attirò l’attenzione per le sue apparenti capacità matematiche divenendo un’attrazione in tutta la Germania; presto rinominato kluger Hans (Hans l’intelligente), lasciava sbigottiti gli spettatori che assistevano alle sue sottrazioni e addizioni. Il suo proprietario gli poneva un quesito matematico e lui rispondeva battendo lo zoccolo tante volte quante era il numero del risultato del calcolo.
Lo psicologo Oskar Pfungst decise di sottoporre Hans ad altri test che rivelarono le raffinate capacità del cavallo in termini di sensibilità e attenzione, ma smentirono la sua nomea di gran matematico. Infatti, quando il padrone non sapeva la soluzione dei calcoli o era nascosto, Hans non riusciva a rispondere correttamente: inconsapevolmente il suo proprietario assumeva un atteggiamento rigido ogni volta che poneva una domanda, tensione che svaniva non appena il cavallo batteva l’ultimo rintocco utile per raggiungere la soluzione del problema, rilassamento che Hans prendeva come un segnale di stop.
Seppur vennero confutate le abilità di Hans in matematica, gli esperimenti dimostrarono come i cavalli siano particolarmente bravi a prestare attenzione alle piccole sfumature del comportamento altrui, non solo quelle di altri cavalli, ma anche di specie differenti come l’uomo. Purtroppo per Hans l’uomo al suo fianco – inconsapevole di suggerire le risposte al cavallo – si sentì tradito e decise di vendicarsi destinandolo al traino dei carri funebri, fino a che un nuovo proprietario impressionato dalla sua intelligenza non lo prese con sé.
Charlie Menzel, primatologo del Language Centre di Atlanta, pochi anni orsono decise di provare dei test su Panzee, una femmina di scimpanzè residente nella stessa struttura. Questa viveva all’interno di un recinto abbracciato dai pini e Menzel ebbe l’idea di farsi notare mentre scavava delle piccole buche fuori dalla sua abitazione, in prossimità della boscaglia, nelle quali inseriva degli M&M’s – o degli acini d’uva – per poi andarsene, lasciandola per tutta la notte sola nell’impossibilità di chiedere aiuto per avere le leccornie. Al mattino seguente i custodi – ignari dell’esperimento – trovarono Panzee particolarmente agitata, cercava in tutti i modi di attirare la loro attenzione: grugniva, indicava e, una volta ottenuta l’attenzione dell’uomo, direzionava il suo sguardo in prossimità dei tesori nascosti. Quando il custode sbagliava strada Panzee agitava le mani indicando la direzione da prendere; una volta, al fine di segnalare il punto esatto del bottino, si mise a sputare in prossimità delle prelibatezze. L’esperimento riuscì, la giovane scimpanzè capiva di avere delle informazioni di cui i custodi non erano a conoscenza, immaginava metodi per raggiungere il suo scopo, ricordava eventi della notte precedente con chiarezza e inventava modi per guidare i suoi aiutanti fino al suo obiettivo.
Occorre tutta l’ingegnosità umana per capire quanto sia intelligente un animale. Occorre anche del rispetto (de Waal, Siamo così intelligenti da capire l’intelligenza degli animali?, 2016)
Questi casi vogliono essere un piccolo esempio di come nel sottoporre un animale a esperimento vadano prese in considerazione moltissime variabili. Non è sufficiente la conoscenza delle sue caratteristiche genetiche-morfologiche, né quella della storia evolutiva della sua specie; ciò di cui dobbiamo occuparci è come immaginiamo i test. Dobbiamo ricordarci dell’insegnamento di Darwin quando ci invitò a pensare l’intelligenza come una caratteristica comune a tutto il regno animale, piuttosto che a una prerogativa umana; perché se l’evoluzione ha agito e continua ad agire sugli organismi è bene sottolineare che in quanto animali condividiamo con il resto dei viventi una comune storia evolutiva e per quanto possano sussistere differenze tra la nostra e altre specie nulla è esclusivo dell’uomo, nemmeno la cognizione.
Immaginando metodi ed esperimenti per quantificare le capacità di altre specie dobbiamo anche tenere presente l’analisi dell’Umwelt (mondo circostante e soggettivo di ogni organismo) di Jakob von Uexküll: ogni organismo percepisce e agisce nella porzione di mondo a lui disponibile secondo una propria prospettiva individuale, non solo specie-specifica, ma soggettiva. Certo, non possiamo spostarci nel mondo sensoriale e psicologico di altri soggetti – umani o altro che siano –eppure possiamo imparare a conoscerli e rispettarne le peculiarità, offrendo test mirati, pensati e cuciti appositamente per loro al fine di coinvolgerli in quanto soggetti, senza anteporre i nostri pregiudizi antropocentrici e ammettendo che per quante diversità riscontriamo possiamo ammettere una chiara continuità tra le caratteristiche di svariate specie.
Esistono tante intelligenze quanti sono gli Umwelten, e ci sono tanti Umwelten quanti sono gli organismi. Non possiamo arrogarci il diritto di stabilire una gerarchia tra capacità e intelligenze perché, come ogni altro organismo, anche noi siamo sprovvisti di molteplici adattamenti cognitivi, per il semplice fatto che nel nostro percorso evolutivo non ne abbiamo avuto bisogno.
Ogni specie reagisce con flessibilità all’ambiente e sviluppa soluzioni ai problemi che esso pone. Ogni specie lo fa in modo differente […] non ha senso domandarci se uno scoiattolo sia in grado di contare fino a dieci, se una tale attività non ricopre alcuna funzione reale nella sua vita. (de Waal, 2016)