“Punto di fuga” di Michail Šiškin
È come se tra noi e lui, il tempo, ci fosse una sorta di malinteso, di confusione, come se non tutto fosse a posto
Saša Sokolov, “La scuola degli sciocchi“
Postmoderno? Post-postmoderno? Neobarocco? Metamodernista? Michail Šiškin è come il Balto del cartone animato: «sa soltanto quello che non è». Risulta infatti complicato per i critici ascrivere lo stile di uno dei più importanti autori russi contemporanei a questa o quella corrente letteraria. Tanto più che, come sottolinea Sergej Orobij, è altrettanto innegabile il suo legame con nomi quali Vladimir Nabokov e Saša Sokolov.
L’elemento che spicca all’interno dei suoi romanzi è costituito dal rapporto fra spazio e tempo, indissolubilmente legato al tema della memoria attraverso il potere salvifico della parola che si fa custode del mondo nella gola del tempo.
Il comune denominatore delle sue opere si rintraccia quindi nell’uso che Šiškin fa della lingua. È del 2005 l’intervista a Gleb Morev in cui dichiarava: «La lingua della letteratura russa è la difesa. Un’isola di parole in cui la dignità umana deve essere preservata. Di per sé, la lingua letteraria non esiste, va ricreata ogni volta. È quello che sto facendo. Questa è la mia battaglia, la mia guerra».
Difatti, già in Capelvenere (Venerin volos, 2006, tradotto e curato da Emanuela Bonacorsi per Voland) il presente e il passato si confondono in una danza simbiotica in cui l’unico strumento che permette ai protagonisti di qualsiasi epoca di superare la morte è proprio la parola. È quindi soltanto attraverso la parola che la vita diviene immortale e che quelle vite ormai da tempo dimenticate tornano a fiorire squarciando con l’inchiostro la trama dell’oblio.
Punto di fuga (Pis’movnik 2011, pubblicato quest’anno da 21lettere ancora una volta nella traduzione di Emanuela Bonacorsi vincitore del Premio Strega Europeo 2022 a pari merito con Primo sangue di Amélie Nothomb, traduzione di Federica Di Lella) riprende le tematiche di Capelvenere mutandone il contesto: lo scambio epistolare fra i protagonisti – Volodja e Saška – ha come sfondo rispettivamente la rivolta dei Boxer e la Russia della seconda metà del Novecento.
Lo scarto temporale che divide i due giovani sembra però non costituire un problema, tanto che più si va avanti nella lettura, più si comprende come in realtà fra loro non avvenga un vero dialogo. I diversi piani temporali si innestano nella linea narrativa come in Capelvenere, in cui la storia dell’Interprete e della moglie nel mondo contemporaneo si confonde con quella della leggenda medioevale di Tristano e Isotta (la stessa Isotta con cui l’Interprete finisce per avere una relazione).
Le coordinate spazio-temporali, che dovrebbero rappresentare gli appigli a cui aggrapparsi nella narrazione, vengono manipolate dall’autore che anche in Punto di fuga gioca una doppia partita con i personaggi e il loro tempo, sia intimo sia storico.
L’inganno di Šiškin si concretizza in una cornice comunicativa inaffidabile in cui i due giovani si scambiano le lettere, senza che queste siano veramente indirizzate l’uno all’altra. Fra di loro c’è sì un messaggio, ma la comunicazione viene meno. Il tanto agognato incontro fra i protagonisti non avverrà mai se non nel contesto del libro inteso come oggetto. Nel loro dialogo simulato, Volodja e Sašen’ka rappresentano da un lato il paradigma della morte e dall’altro quello della vita. Mentre Saška continua infatti a vivere, invecchia, cambia, incontra e perde tante persone, Volodja rimane eternamente giovane, per sempre quello spaventato soldato nella Cina di fine Ottocento.
Come sottolineato dalla critica per quanto riguarda i romanzi precedenti, l’intento di Šiškin sembra quello di demistificare l’era pre-rivoluzionaria vista dall’intelligencija come un’età dell’oro (ricordiamo che Šiškin vive in Svizzera dal 1995 ed è ormai inviso al potere putiniano soprattutto a causa delle sue posizioni nei confronti dell’aggressione alla Crimea del 2014, nonché di quella odierna all’Ucraina). Ed è proprio la guerra a muovere azioni e pensieri del giovane protagonista. Lontano da casa e dagli affetti, circondato da distruzione e morte, Volodja trova rifugio in carta e inchiostro giungendo infine alla conclusione che le parole non sono altro che un inganno ma anche, allo stesso tempo, che tutto ciò che non è parola può essere spiegato soltanto attraverso le parole stesse.
Ed ecco che nel mondo della guerra – irreale e alla rovescia – Volodja capisce che per diventare reali è necessario esistere nella coscienza di un’altra persona. E non di una persona qualsiasi ma di chi ha bisogno di sapere che l’altro esiste.
La stessa Saša, lontana nel tempo e nello spazio dal soldato nella Cina di fine XIX secolo, giunge alla medesima conclusione: in quel foglio di carta, in quel filo che li unisce sono contenute le parole che legittimano la sua esistenza tramite il Volodja-lettore.
I personaggi secondari, più presenti nella parte dedicata alla Russia moderna di Saška, non si limitano a fare da sfondo alle vicende (della ragazza prima e della donna poi) ma prendono loro stessi lo spazio della storia attraverso il racconto fatto dagli occhi e dall’immaginazione della protagonista. Ci troviamo perciò a vivere la vita dei suoi genitori, nei giorni dell’adolescenza così incomprensibile, fino alla loro dipartita; oppure diventiamo testimoni del rapporto ora indebolito ora fortificato fra l’amante di Saša e la di lui moglie per poi comprendere come tutte queste vite non sono altro che fili di una stessa matassa destinata a unirsi e costruire una sola grande unità.
Ecco come funziona il mondo. All’inizio eravamo tutti insieme, un tutt’uno. Poi siamo stati dispersi, ma a ciascuno è legato un filo, che ci tira indietro. Il mondo intero si riunirà di nuovo in quel punto. […] Lì saremo di nuovo tutti insieme perché quel luogo si chiama così, punto di fuga.