Riflessioni su “Una vita come tante” di Hanya Yanagihara
la narrazione del post-umanesimo
Una vita come tante (traduzione di Luca Briasco, Sellerio, 2016) è un libro da cui non si torna indietro. Perché A Little Life, il best-seller mondiale dell’autrice di origini hawaiane Hanya Yanagihara, non è un semplice romanzo: è un’esperienza che ti entra nelle ossa. In queste pagine si passa attraverso spirali di dolore, benedizioni inattese, momenti perfetti capaci di abbagliare con una lucentezza unica, lacrime di rabbia e lacrime di gioia, sino a sondare abissi profondi, oscuri, inesplorati.
Il più grande merito di questo libro, ciò che rende leggere e quasi volatili le sue 1091 pagine, è la capacità di cogliere la vita nel suo progressivo farsi. È come un’avventura di cui non si conosce l’esito: veniamo introdotti nelle esistenze quotidiane dei personaggi, siamo calati nella loro psiche, conosciamo i loro pensieri più intimi, ma non possiamo predire il loro destino né svelare il loro passato. E così la lettura si trasforma in un’esperienza totalizzante, magnetica, assoluta, che ci risucchia all’interno del suo vortice e non lascia via di scampo sino alla battuta finale.
È difficile comprendere quale sia il segreto, la formula magica che ha fatto di questo corposo libro di oltre mille pagine (in aperta contraddizione con il Little del titolo originale) un sorprendente caso editoriale. Eppure A Little Life ha superato ogni aspettativa: pubblicato da Doubleday (2015) negli Usa ha subito scalato le classifiche arrivando finalista ai principali premi nazionali, dal Man Booker Prize al National Book Award. In meno di un anno si è trasformato rapidamente in un libro di culto facendo incetta di lettori in tutta Europa, dalla Polonia all’Olanda. Nel 2019 il quotidiano britannico The Guardian l’ha classificato al novantaseiesimo posto tra i cento migliori romanzi del XXI secolo.
Al di là delle ottime recensioni, ciò che maggiormente stupisce a proposito di questo eclatante caso letterario è la reazione inusuale che ha innescato nel pubblico. Il parere dei lettori, a proposito di Una vita come tante, si divide in due schieramenti diametralmente opposti: chi lo ha amato alla follia, chi l’ha odiato con ferocia.
Il punto è che nessuno sembra rimanere indifferente a questo libro: le pagine social l’hanno trasformato in un argomento di discussione seguitissimo. Su Instagram alcuni utenti hanno dichiarato di aver addirittura pianto durante la lettura; mentre altri affermano senza mezzi termini di essere stati tentati di scagliarlo più di una volta contro il muro. È sufficiente ricercare i contenuti pubblicati tramite l’hashtag #unavitacometante per osservare un susseguirsi di emozioni disparate ed eccessive. Inevitabile, dunque, avvicinarsi con curiosità al volume incriminato con un misto di fascino e terrore, domandandosi: e io da che parte starò?
A lettura conclusa posso finalmente dire: l’ho amato. Una volta iniziato non sono più stata in grado di staccarmi dalle pagine; la storia mi è entrata dentro. E cercherò di spiegarvi perché.
New York era un ricettacolo di ambizioni. E spesso, l’ambizione era l’unica cosa che la gente avesse in comune. […]
Solo a New York ti trovavi a dover spiegare qualunque atteggiamento che non fosse assimilabile alla brama di successo; solo a New York eri costretto a giustificarti se avevi fede in qualunque cosa di diverso da te stesso.
Una vita come tante si apre narrando le vicende di un gruppo di amici, quattro giovani adulti che si trovano alle prese con un futuro vasto, indefinito e imperscrutabile dopo aver concluso un brillante percorso di studi universitario. Ciascuno è in cerca di sé stesso, ciascuno si trova a fare fronte alle proprie paure, sfidando un costante senso di solitudine e alienazione. All’apparenza sono dei ragazzi come tanti altri, pieni di sogni e ambizioni che si scontrano duramente con una realtà molto più difficile del previsto in cui i soldi non bastano mai, gli affitti sono vertiginosi, la strada per la realizzazione personale è lunga e impervia e spesso parte da padelle da scrostare nel retrobottega di un ristorante affollato.
Mentre Yanagihara, narratore onnisciente, ci trascina con abilità nelle singole vite di Malcolm, Willem e JB – ciascuno descritto secondo le proprie caratteristiche, le proprie peculiarità, i propri demoni interiori – prende lentamente corpo il personaggio di Jude St Francis, il più enigmatico del gruppo, illuminato a intermittenza dalle descrizioni degli altri amici, inconsciamente attratti dalla sua persona e dall’impalpabile aura di mistero che reca con sé. C’è qualcosa di irrisolto in lui, qualcosa di prodigioso e al tempo stesso disturbante: possiede un’intelligenza fuori dal comune, è affascinante, predilige la solitudine, si scusa in continuazione (una lettrice ha calcolato il numero di «I’m sorry» presenti nel romanzo, sono 215) ed è attraversato da dolori cronici in seguito a un incidente di cui non fa parola con nessuno.
A partire dalla seconda parte la trama subisce una brusca sterzata e si focalizza soprattutto sulla storia di Jude, il cui oscuro passato viene svelato tramite continui flashback e colpi di scena. D’improvviso quello che si era aperto come un racconto sull’amicizia e la crescita personale nell’affascinante città delle luci si trasforma in tutt’altro, dischiudendo una parabola sulla sofferenza umana, sulle infinite strade del male e le altrettanto immense possibilità del bene.
La vita è un groviglio di incongruenze e contraddizioni; questa è l’essenza profonda di A Little Life che fa dell’esistenza di Jude, costellata di sofferenze, una sorta di ostia sconsacrata da distribuire a tutti gli esseri umani in segno di comunione fraterna.
Jude è un Cristo in croce a tutti gli effetti, la quantità di dolore che gli viene inflitta ha dell’incredibile, eppure ci afferra il cuore in una morsa di totale empatia, perché in fondo una parte di quel dolore l’abbiamo provata anche noi: sentiamo tutti almeno un briciolo della sua sofferenza che costituisce l’essenza più profonda della vita umana spogliata da ogni schermo, apparenza o artificio.
Allo stesso tempo, noi lettori quel dolore vorremmo lenirlo e procediamo voraci nel divorare pagine sperando che il suo fardello sia alleggerito. Ma Yanagihara non cede all’inganno di una felicità riparatrice, al contrario mostra come i periodi di tregua e totale appagamento nella vita abbiano breve durata.
«Non lo vediamo mai con nessuno, non sappiamo di che razza sia, non sappiamo niente di lui. Post-sessuale, post-razziale, post-identità, post-passato. Il post-umano. Jude Il Post-Uomo» afferma Malcolm all’inizio del libro descrivendo l’amico. A lettura conclusa queste parole acquistano un valore quasi simbolico, come se Hanya Yanagihara attraverso il suo personaggio avesse voluto comporre un manifesto letterario sul post-umanesimo del ventunesimo secolo.
L’assioma dell’insieme vuoto è l’assioma associato allo zero. Presuppone che ci sia il concetto di niente, il concetto di zero: zero valori, zero elementi. […]
Possiamo dire che la vita stessa è l’assioma dell’insieme vuoto: inizia da zero e finisce con zero. Sappiamo che entrambi gli stati esistono, ma non saremo mai coscienti dell’una e dell’altra esperienza: tali stati sono parti essenziali della vita, anche se non possono essere concepiti come vita. Noi presumiamo il concetto di niente, ma non possiamo dimostrarlo. Eppure, deve esistere.
L’epoca in cui è ambientato il romanzo è imprecisata, non vengono mai fatti riferimenti storici determinanti e non si nominano nemmeno cellulari e social network, eppure la narrazione appare estremamente contemporanea. Yanagihara modifica i consueti parametri di trama focalizzando la storia interamente dal punto di vista maschile (non ci sono donne nel libro e le poche donne presenti rivestono un ruolo marginale), l’amicizia lega i personaggi per quasi cinquant’anni di vita e assume un ruolo surrogato a quello familiare, inoltre le relazioni descritte non seguono percorsi canonici, come testimonia l’ampia parte dedicata all’omosessualità nel capitolo “Gli anni felici”.
Il romanzo vuole essere – come l’autrice stessa ha dichiarato in un’intervista – anche un omaggio a un diverso modo di vivere l’età adulta che non viene spesso celebrato nella narrativa.
Poi, così vicina al suo orecchio che sembra provenire da dentro di sé, sente la voce di Willem, che ripete la sua dolce cantilena: “Sei Jude St Francis. Sei il mio amico più caro, l’amico di una vita intera. Sei un newyorchese. Abiti a SoHo. Offri assistenza legale volontaria ad artisti, e sei nel consiglio di amministrazione di una mensa per poveri.
Sei un ottimo nuotatore. Sai cucinare. Adori leggere. Hai una voce bellissima, anche se non canti più. Sei un pianista eccellente. Collezioni opere d’arte. Mi scrivi messaggi bellissimi, quando sono fuori per lavoro. Sei paziente. Sei generoso. Sei il miglior ascoltatore che io conosca. Sei la persona più intelligente che io conosca, e la più coraggiosa, da tutti i punti di vista.
L’analisi profonda dei turbamenti e della psiche dei personaggi lo rende un libro estremamente moderno, in grado di riflettere l’ampio spettro di problemi esistenziali degli uomini del nostro tempo.
Non a caso uno dei temi cardine del romanzo è rappresentato dal sentimento di solitudine – una solitudine estrema, esistenziale, che nella parte finale prende il sopravvento.
Yanagihara in queste pagine ha rappresentato tutte le paure e i demoni dell’uomo moderno attraverso riflessioni profonde e accuratissime che il più delle volte sono tese a indagare il fine ultimo delle cose: non è quello che ricerchiamo tutti, alla fine, un senso? La risposta l’autrice la affida a questa “piccola vita” che, in perfetta antitesi con il titolo, di piccolo non ha proprio nulla: A Little Life è la storia di una singola esistenza ma, a ben vedere, contiene un intero universo.
La focalizzazione narrativa di questo romanzo è come uno zoom fotografico su una strada affollata del centro città: dapprima si vedono le persone che camminano tutte insieme, un formicolio brulicante, poi lo zoom si restringe sino a mettere a fuoco un unico individuo – ora che siamo più vicini di quella sola persona possiamo vedere tutto, cogliere ogni minimo particolare, non è più un’insignificante sagoma di passaggio, quella singola persona sembra contenere la folla intera. È proprio questa la strategia alla base della scrittura di Yanagihara: cogliere l’unicità nell’universalità, la transitorietà di una vita che scorre e che non si ripeterà mai più.
Una vita come tante è una storia di dolore, formazione, privazione. È anche una storia d’amore e un trattato sull’amicizia. Una storia di vita e, di conseguenza, anche una storia di morte.
Il punto è che questo romanzo non è facilmente classificabile, le pagine scorrono con l’impeto di un fiume in piena e sembrano abolire qualsiasi costrutto di stile, forma o struttura. Nella scrittura Hanya Yanagihara segue il ritmo della vita, in apparenza lento, quotidiano, che non ci prepara mai ai suoi voltafaccia improvvisi.
Sul finale del romanzo il pubblico è diviso: in molti criticano la quantità sproporzionata di sofferenza, l’apparente assenza di morale, la conclusione impietosa. Altri la giustificano, colgono nella storia intessuta dall’autrice un riflesso etico.
La critica più dura è stata redatta da Daniel Mendelsohn sulla New York Review of Books. Mendelsohn attacca Yanagihara proprio sull’eccesso di violenza inflitta al suo protagonista e, in particolare, focalizza l’attenzione sullo scarto tra l’atmosfera ariosa e vitale del principio e l’abisso senza fondo in cui precipita la seconda parte.
Yanagihara ha ribattuto definendo A Little Life un po’ come una parabola dell’età adulta, che inizia come qualcosa di pieno di possibilità e si restringe in un senso più introspettivo. L’autrice, inoltre, afferma di non aver mai dato peso alla credibilità del suo racconto, ma di averlo scritto in una sorta di stato febbrile.
L’aneddoto più straordinario a proposito di questo best-seller mondiale è dato proprio dal suo miracoloso processo di scrittura: Yanagihara ha infatti confessato di aver scritto le oltre 375 mila parole che compongono A Little Life in diciotto mesi, lavorando al romanzo ogni sera dopo un’intera giornata trascorsa alla redazione del New York Style Magazine.
In un’intervista per il Guardian ha affermato di aver vissuto nel corso della stesura del libro un’esperienza di totale alienazione dal mondo circostante. Questa sensazione febbrile è da lei stessa riportata nel romanzo per esprimere l’estasi artistica in cui precipita il personaggio di JB:
C’erano periodi – attesi quasi con ansia – in cui la vita del quadro o del progetto cui stavi lavorando diventava più autentica della vita reale: dovunque ti trovassi sognavi solo di tornare allo studio […]
Gli capitava di riemergere dalle nebbie del quadro cui stava lavorando e di rendersi conto che respiravano allo stesso ritmo, quasi con affanno, per lo sforzo di concentrarsi al massimo.
Grazie al suo «fevered state» Hanya Yanagihara ha composto qualcosa di miracoloso, un flusso di parole, immagini e sequenze potente e irresistibile.
Una vita come tante compone un affresco umano e psicologico unico: non è una lettura, ma un’esperienza da vivere. Tutte le sue cosiddette imperfezioni, i suoi tanto famigerati eccessi, sono gli stessi difetti imputabili ad un essere umano, che è quanto di più lontano esista dal concetto di perfezione.
No, non si esce indenni dalla lettura di questo libro. Non vi dimenticherete di Jude, Willem, Malcolm, JB e di Lispenard Street. E vi accompagnerà, come un ritornello costante, l’assioma dell’uguaglianza: x=x, x=x.