The Publishing Fair
nelle officine dell’editoria
Tra meno di un mese le sale di Palazzo Copernico Garibaldi di Torino ospiteranno The Publishing Fair, la prima edizione della manifestazione nazionale dedicata ai professionisti dell’editoria libraria. Una sede particolare che ben rappresenta lo spirito di questo progetto coniugando la modernità di un nuovo modo di pensare spazi e servizi con la cornice della storica sede della «Gazzetta del Popolo».
È la prima volta che si sperimenta qualcosa di simile in Italia, paese che ad oggi vede ancora saldo il baluardo dell’editoria come primo comparto culturale per fatturato. Due terzi del settore sono coinvolti nella pubblicazione della cosiddetta non-fiction. Al centro di questo evento soprattutto i protagonisti coinvolti nelle pubblicazioni scolastiche, accademiche, professionali, nella saggistica e nelle grandi opere.
Torino è da sempre una città cardine del panorama editoriale nazionale, ma a differenza del Salone del libro, in questo caso l’iniziativa è indirizzata ai professionisti del settore, offrendo tre giorni di workshop, convegni, alta formazione e B2B. Un’opportunità per rimanere aggiornati e favorire incontri di lavoro e di conoscenza con tutti gli attori della filiera. Non si tratta infatti di una fiera pensata e dedicata ai soli editori; l’obiettivo è invece quello di coinvolgere tutti i professionisti impiegati nel settore creando un ambiente propositivo e stimolante per scambi, idee e contatti, mettere in comunicazione tutti i partecipanti alla filiera per creare nuove possibili sinergie e uscire da questo incontro rafforzati.
Verranno coinvolte personalità rilevanti a livello nazionale e internazionale. Per comprendere la portata si pensi ai 90 relatori italiani e stranieri, 75 incontri tematici e alle 5 sale sempre contemporaneamente occupate.
Gli ideatori di questa iniziativa sono Marzia Camarda e Lorenzo Armando, imprenditori torinesi di grande esperienza. Abbiamo avuto l’opportunità di parlarne con loro.
Il settore editoriale è redditizio ma, apparentemente, se ne discute poco, possiamo considerare l’editoria come una grande esclusa dal bilancio economico culturale?
Non credo che l’editoria si possa considerare come esclusa. La narrativa è spesso sotto i riflettori e non si può dire che non abbia un’attenzione o rilevanza tanto inferiore rispetto ad altri settori. Quella che noi notiamo è la tendenza a una minore attenzione da parte delle istituzioni, proprio in termini di sostegno e aiuti. Lo tira spesso fuori l’associazione editori, ci sono molti più aiuti per altri settori rispetto che all’editoria. Però in realtà l’editoria, specialmente la narrativa, attira molta attenzione e a livello mediatico, si pensi a come scrivere un libro funzioni ancora come mezzo per ottenere visibilità. Quindi direi piuttosto che c’è una parte dell’editoria che non viene sufficientemente valorizzata e non se ne parla a sufficienza proprio perché tutto quello che non è narrativa di fatto raramente finisce sotto i riflettori quindi forse dire che una grande esclusa sarebbe un po’ troppo, ma c’è molto spazio per lavorare affrontare opportunità e problemi del settore in maniera più costruttiva e con un approccio più strettamente imprenditoriale, non semplicemente focalizzandoci solo sulla questione culturale ma anche dal punto di vista industriale in senso stretto.
L’editoria è un settore da anni in crisi. Un punto che vorremmo chiarire è proprio perché un settore che produce ed è così rilevante in realtà fa così fatica a essere economicamente florido. Molte cose stanno cambiando, i dati di vendita lo dimostrano, c’è una crisi, però noi crediamo nel fatto che l’editori continuerà ad avere una rilevanza molto importante. L’editoria italiana è però in ritardo nel recepire le tendenze e la direzione in cui andare, e di conseguenza su cosa vale la pena investire. Questo è uno dei temi su cui la nostra iniziativa vuole mettere l’attenzione.
Anche quando sentiamo parlare di questo settore in Italia tendenzialmente il dibattito riguarda l’ampio spettro del prodotto romanzesco. Secondo lei, perché si parla poco di quei due terzi del settore che sono costituiti dalla non-fiction?
Da un punto di vista mediatico sono meno interessanti. Ma basta andare alla fiera di Francoforte, evento annuale più importante a livello mondiale, e si percepisce subito che i padiglioni più grandi sono occupati in realtà soprattutto dagli editori che non fanno fiction. Si pone un grosso problema per l’editoria italiana perché in realtà questi settori sono per loro natura transnazionali – e basti pensare agli investimenti dei grandi gruppi editoriali stranieri in Italia che comprano marchi editoriali di altri settori, dalla giuridica alla scolastica – quindi se ne parla poco perché è mediaticamente meno conosciuto, ci piacerebbe renderlo più accattivante perché è effettivamente un settore in cui c’è del lavoro, esiste la possibilità di migliorare il contesto di business in cui ci muoviamo e raccontare in maniera più interessante anche tutto quello che non è narrativa.
Dopo il Salone del libro, Torino si trova nuovamente a essere luogo privilegiato per il mondo del libro, come si coniugano il nuovo scenario contemporaneo e la storia di questa città?
Torino, grazie al Salone, è davvero un luogo centrale per l’editoria. Lo è da un punto di vista storico, per tutte le iniziative che sono nate dall’Ottocento in poi. Il ruolo che questa città potrebbe avere ora è di dare vita a iniziative con capacità di visione e di innovazione che il contesto consente di far nascere forse in maniera più facile e più sostenuto rispetto ad altri. Quindi, che Torino sia o no la capitale dell’editoria in Italia, io penso che un’iniziativa come questa consolidi il fatto che in questa città possano nascere iniziative e si possano fare ragionamenti che abbiano la caratteristica di innovazione, che possano crescere e influire anche complessivamente con quello che non è strettamente torinese. Quello che vorremmo evitare è di limitare alla torinesità questa iniziativa, che non significa che il ruolo della città non abbia rilevanza, però il fatto di dare a Torino una prospettiva diversa e più contemporanea per noi significa fare in modo che questa iniziativa cresca senza paura di non avere poi sempre Torino al centro. È molto importante valorizzare ciò che c’è e quella che è stata la storia, ma senza farne una questione sterile di bandiera, quanto piuttosto facendo leva sulla capacità di questa città di mettere in moto le energie che davvero forse in altri posti fanno più fatica a coagularsi. Questa è una sfida che stiamo cercando di vincere.
In che modo è cambiato il volto dell’editoria negli ultimi anni? Che posto hanno le innovazioni in questo scenario?
La nostra non vuole essere un’iniziativa legata solo all’innovazione, non perché non ci sia spazio perché molti eventi saranno legati a questo e al futuro, però noi vorremmo davvero riuscire a creare un evento che guardi anche a oggi, criticizzando su quelli che sono i problemi e su quello che non funziona come dovrebbe. Questo dovrebbe essere il posto in cui ragionare su quel che funziona e quel che non funziona in maniera pragmatica. Certo, come tutti i rapporti annuali testimoniano, i volumi generali del settore sono diminuiti drasticamente negli ultimi dieci anni ed è importante capire cosa possa essere cambiato, ma è chiaro che questi dati facciano riferimento a un certo modo di fare editoria. Sono dati in calo e in crisi, ma in realtà noi riteniamo che leggere sia una cosa che o per studio, per professione o per piacere, le persone continueranno a fare, bisognerebbe cogliere l’occasione di questa crisi del lettore per nuove idee. Riteniamo che sia importante in questo caso più che in altri guardare all’estero, dove certi cambiamenti non sono solo avvenuti, ma sono anche già stati metabolizzati e hanno generato nuove forme di business.
L’editoria è un’industria che non punta solo a produrre un bene, ma dovrebbe impegnarsi a fornire un valore aggiunto. Chi opera in questo settore ha quindi una differente responsabilità morale verso il pubblico in relazione al prodotto che intende distribuire?
È molto interessante. Dal mio punto di vista questo vale per l’editoria, così come vale per ogni altro settore. Oggi bisogna essere consapevoli che qualsiasi settore imprenditoriale ha una responsabilità morale. È più facile immaginare che quando uno di occupa di cultura debba porsi questo tema della responsabilità morale in maniera un po’ più forte. Sicuramente deve farlo, ma non vorrei che l’enfasi sulla parte culturale del nostro lavoro finisca per oscurare un approccio corretto dal punto di vista del business. Dal mio punto di vista è etico anche fare impresa con i conti a posto, pagando correttamente i dipendenti, senza vivere soltanto di contributi pubblici. L’editoria deve provare a ripensarsi anche rispetto a questo tipo di criteri. L’editore deve pubblicare in maniera consapevole e con un atteggiamento morale ed etico, ma questo non è specificità del nostro settore, è una cosa che dovrebbe riguardare tutti quanti. Abbiamo una responsabilità nei confronti del pubblico come chiunque altro venda un prodotto e deve convincerlo della qualità di quello che sta facendo, capire cosa serve e darglielo a delle condizioni di business imprenditoriali corrette. Fare bene l’editore significhi non soltanto badare con attenzione al contenuto e ciò che proponi al pubblico, ma anche al modo in cui lo stai facendo.