Culturificio
pubblicato 1 anno fa in Recensioni

“Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologia” di Mark Boyle

la condizione umana e i concetti di natura

“Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologia” di Mark Boyle

Personificata, venerata, spesso temuta e talvolta sfidata, la natura è un concetto dell’uomo. La cultura occidentale l’ha spesso considerata cornice della vita umana, peculiare tipo di materia che fin dal libro del Genesi l’uomo avrebbe avuto il compito di popolare e sottomettere; in alcune religioni orientali come il taoismo troviamo invece un’identificazione dell’umano con ogni altra forma di vita.

Concetto ambiguo, mai univoco, presenta dunque numerose declinazioni; una di queste è la rappresentazione di una natura selvaggia, costruita nei secoli da antropologi, filosofi e scrittori occidentali. La letteratura ha senza dubbio contribuito a inserire nell’immaginario comune una particolare concezione di ciò che essa rappresenta: mi riferisco a quelle narrazioni che – specialmente nell’Ottocento con Edgar Allan Poe, Emilio Salgari, Jules Verne, e, ancora, con Rudyard Kipling – si rivolgono non agli intellettuali, ma al grande pubblico.

Fu una lunga serie di eventi a portare la letteratura a occuparsi dell’idea di natura selvaggia raccontata nei romanzi d’avventura esotica che in quel periodo sostituirono in larga parte il romanzo storico, il giallo e il noir; a determinare questa direzione furono le imprese esplorative di quel secolo, come l’esplorazione geografica della Terra, le conquiste sportive delle Alpi e, indubbiamente, l’imperituro colonialismo.

Eccoli, dunque, Tarzan e Mowgli, emblemi di una vita selvaggia contrapposta a quella civilizzata, vite che scontrandosi elevano la ragione a paradigma di interpretazione della società: sarà l’intelligenza esclusiva della specie umana a vincere gli istinti bruti caratteristici delle altre specie animali (e, in un’ottica razzista, delle etnie considerate inferiori o esoticamente affascinanti, di un’umanità stereotipata, altra). Eppure, abbandonando per un momento le implicazioni classiste e razziste di cui sono permeate queste storie, spesso accade che alla cosiddetta vita selvaggia venga attribuito il valore della libertà, verso cui rivolgere uno sguardo romantico e nostalgico.

Nonostante sia trascorso più di un secolo da questo fenomeno, quasi due, siamo ancora profondamente attratti da quella presunta libertà attribuita alla natura e in molti considerano la vita urbana e la tecnologia come prigioni contemporanee. Oggi è possibile assistere a una rinnovata tendenza letteraria e filosofica che intravede nell’idea di natura il proprio tema nodale, forse caratterizzato da un minor spirito avventuriero rispetto al diciannovesimo secolo. I ritmi dettati dal progresso vengono messi in discussione e avanza la consapevolezza del fatto che questo potrebbe non essere l’unico modo per stare al mondo, come suggerisce il filosofo italiano Leonardo Caffo in Velocità di fuga. Sei parole per il contemporaneo (Einaudi, 2022): «la contemporaneità ci trasmette uno strano senso di onnipotenza impotente, un ossimoro esistenziale a cui dobbiamo abituarci e con cui fare i conti è necessario».

Tuttavia sono pochi coloro in grado di condurre una vita rinunciando alle comodità della società contemporanea. Chi è riuscito in questa impresa è Mark Boyle, che dal 2016 vive in una baita vicino a un piccolo villaggio della contea di Galway, in Irlanda. Pubblicato per la prima volta in Italia nel giugno del 2022 il suo libro Tornare a casa. Cronache da una vita senza tecnologia (Piano B Edizioni, traduzione di Carlo Bianchini) non è un manifesto antitecnologico, ma un memoir del suo primo anno senza tecnologie moderne, un diario che attraversa ogni stagione descrivendo le attività e le preoccupazioni principali. Tutto si svolge in tempi più dilatati rispetto a quelli a cui la maggior parte della popolazione occidentale è abituata, perché è rallentando che diventa più facile fare bene qualsiasi cosa: «Passare dal computer alla matita è stato un enorme passo per me, che non credevo sarei mai stato capace di compiere. Invece mi ha dato la possibilità di godermi appieno la scrittura. Il processo in sé ha rallentato molto, eppure non so come ma riesco a completare il lavoro in meno tempo. La matita ha cambiato il mio modo di scrivere, mi ha rallentato, e ha reso di nuovo umane le mie parole».

La stessa scrittura del libro e la successiva pubblicazione potrebbero sembrare contraddittorie: stampare un testo significa usufruire delle tecnologie moderne, alle quali Boyle era deciso a rinunciare. È nelle pagine finali che l’autore confessa i propri dilemmi morali relativi alla scrittura; la prima stesura è stata realizzata a mano, poi è seguita la trascrizione a computer, oggetto riscoperto dopo un anno fatto di carta e inchiostro, lettere, francobolli e lunghe attese. Essere accusato di ipocrisia, questo era ciò che spaventava Boyle: «Se lo state leggendo è ovvio che ho scelto l’approccio ipocrita. Una volta acconsentito a battere il libro a computer mi sono trovato di fronte a un altro bivio. La scelta si è spostata sul se farlo fare per me da qualcun altro, come per Wendell Berry la moglie trascrisse le sue parole a macchina su una Royal Standard, oppure arrangiarmi. Non conoscendo nessuno disposto a farlo per amore, ho preso la difficile decisione di fare un’eccezione alla mia vita senza tecnologia […] È stata presa coscienza, soppesata e alla fine mi sono fatto guidare da ragioni che sentivo essere più importanti del cercare di rimanere nel giusto o di chissà quale concetto deformato di purezza ideologica».

La sua, per molti, è stata una scelta radicale, un vero atto rivoluzionario, e il desiderio di raccontare la propria storia porta Boyle a scendere a compromessi, rifiutando le polarizzazioni che chiaramente non caratterizzano la complessità del vivere in un mondo moderno. In questa presa di posizione sembrano risuonare le parole di Walt Whitman, le cui poesie elogiano la potenzialità delle contraddizioni:

«Mi contraddico? Va bene,

e allora mi contraddico

Sono vasto, contengo moltitudini» (Feltrinelli, traduzione di Alessandro Ceni, 2015)

Nelle pagine di Boyle si respira il profumo proveniente dal trascendentalismo americano, non solo Whitman, ma anche Henry D. Thoureau, Aldo Leopold e Ralph W. Emerson.

Ecco, pertanto, che ritorna ciclicamente questa idea di prigionia, vincolo scaturito dalle convenzioni sociali, dalla sempre più diffusa urbanizzazione e dalle modalità pervasive del mondo digitale. Sono numerose le ricerche condotte da Maurizio Ferraris dedicate al rapporto che l’essere umano può intrattenere con le tecnologie, rispetto alle quali, spiega il filosofo, non ci troviamo in una posizione di subordinazione proprio perché l’umano è sì essenzialmente un imbecille, un animale inerme, privo di bastone (im-baculum), e dunque bisognoso di quelle armi che sono la tecnica, la cultura, l’arte e la scienza, ma non lo è accidentalmente, perciò provvisto della capacità di controllarle e padroneggiarne la relazione.

È vero, il timore che le macchine possano prendere il controllo conquistando il potere non sussiste, eppure non è possibile negare che alcune tecnologie, specialmente quelle legate al mondo digitale, possano suscitare un certo grado di malessere in chi ne fa un uso quotidiano e assiduo, ovvero la maggior parte della popolazione mondiale. Nel suo ultimo libro Error 404. Siete pronti per un mondo senza internet? (Einaudi, 2022) la giornalista Esther Paniagua descrive tale pervasività del virtuale come l’espressione della dipendenza consumista, delineando alcuni sintomi di tale malessere: «Ci sono anche altri sintomi, come ad esempio trascurare amici e familiari, rinunciare a dormire per restare connesso, mentre, ingrassare o perdere peso, avere dolori alle spalle o mal di testa, ridurre il tempo dedicato ad altre attività piacevoli (o abbandonarle del tutto), oppure provare un senso di colpa, di vergogna, essere ansioso o depresso come risultato del proprio comportamento online». È per motivi come questi che il libro di Mark Boyle può rappresentare uno strumento per mettere in discussione la propria posizione nel mondo, senza alcuna mitizzazione della natura, ma sempre considerandone il valore; non si tratta di assumere delle posizioni estremiste, ma di avvalersi dello spirito critico per analizzare il nostro tempo senza dare nulla per scontato; «Pur sapendo poco o nulla dell’infame e sporca vita di chi campa della terra, le persone a volte mi dicono di fare attenzione a non idealizzare il passato. Su questo sono d’accordo, ma la mia risposta è di fare ancora più attenzione a non idealizzare il futuro».

di Jessica Brazzale