Trainspotting
In questo nuovo appuntamento con la rubrica Tra immagini e parole si prenderanno in analisi il romanzo Trainspotting di Irvine Welsh del 1993 ed il film omonimo diretto da Danny Boyle nel 1996, cercando di tracciare un breve percorso di similitudini e differenze. Il romanzo di Welsh trasporta lo spettatore in uno scenario iper-realistico. Lo scrittore sceglie di raccontare la storia di un gruppo di ragazzi di Edimburgo attraverso singoli brevi episodi, che non seguono il filo del tempo. Piccole storie si intrecciano fra loro e chi legge è chiamato a collegare le vicende ed a mettere ordine ad un enorme flusso di coscienze disordinato e spudorato. I capitoli si dividono in paragrafi ed in ciascuno di essi si dà voce ad un diverso personaggio.
Alcune volte gli eventi sono raccontati in prima persona da uno dei tanti protagonisti, in altri casi, invece, le redini della storia sono affidate ad un narratore onnisciente che mette nero su bianco il dipanarsi degli eventi in maniera molto più ordinata.
Non esiste un protagonista in Trainspotting, il romanzo è totalmente corale: è la somma di tante storie di un gruppo di giovani senza speranza, vinti dalla droga, stufi della società moderna, troppo stanchi per cambiare, troppo infelici per dire la verità. La violenza, l’eroina ed il sesso sono le vere uniche presenze invariabili del romanzo, declinate in forme diverse e guardate con occhi sempre differenti a seconda della voce scelta da Welsh per ciascun racconto. In ogni episodio infatti muta il linguaggio dello scrittore, che si immedesima nel personaggio a cui ha donato la parola.
Così il lettore è portato a conoscere ciascuno di quei ragazzi scozzesi grazie ai loro modi dire o alla brutalità con cui si esprimono. Se, per esempio, in una delle pagine compare la frase “non per dire”, siamo certi di stare leggendo un’avventura del timido Spud, se invece ci troviamo di fronte a discorsi esistenziali e critici verso la società di quegli anni, sicuramente il personaggio principale del racconto sarà Mark Renton.
Lo scrittore diviene una sorta di camaleonte, pronto a cambiare di continuo la forma della sua parola, mantenendo come unica costante l’utilizzo di espressioni sempre colloquiali. Il linguaggio parlato sostituisce quello scritto e dunque la lettura diviene molto più scorrevole, anche se alcune volte si fa più complessa la comprensione a causa del flusso costante di pensieri che si sovrappongono e sembrano avere una vita propria nel disordine della mente dei protagonisti. Quella di Mark, Spud, Sick Boy, Tommy e tutti gli altri è un’esistenza volta alla ricerca di una felicità che tarda ogni giorno ad arrivare e che lascia un vuoto colmabile solo attraverso sostanze stupefacenti. Cresciuti in fretta in ambienti compromessi, hanno deciso di non cambiare e di trascinare le loro vite in una spirale i degenerazione, che ad alcuni costerà molto cara. Spud guarda con occhi amorevoli uno scoiattolo, ritenendolo una minaccia per Mark in quanto piccolo essere vivente dotato di libertà. La libertà non sarà un dono elargito a nessuno dei personaggi, perché la droga, l’alcool, il senso di colpa, l’inadeguatezza, la solitudine, saranno solo alcune delle catene che li imprigioneranno fino alla fine. Emblematica è la conversazione tra Tommy e Mark in cui il primo vuole sapere dall’amico quali sono gli effetti dell’eroina:
La vita è una rottura di palle, non ti dà mai un cazzo. Partiamo tutti pieni di belle speranze, che poi ci restano in canna. Ci rendiamo conto che tanto dobbiamo morire, magari senza riuscire a trovare le risposte che contano veramente. Ci facciamo venire un sacco di idee del cazzo, tanti modi diversi di vedere la realtà della nostra vita, ma senza mai veramente capire un cazzo delle cose che contano, delle cose importanti. Insomma, campiamo troppo poco, la vita è una delusione; e poi moriamo. Ce la riempiamo di merda, la vita: la carriera, i rapporti e roba del genere, per illuderci che magari non è tutto inutile. L’eroina è una droga onesta, perché toglie di mezzo tutte le illusioni. Con l’ero, se stai bene ti senti immortale. Se stai male ti senti ancora più di merda, ma è merda che c’era già da prima. È l’unica droga veramente onesta. Non perdi mai la conoscenza. Ti dà una botta e basta, ti fa star bene. Poi dopo vedi quanto fa schifo il mondo così com’è e non ci puoi fare più un cazzo, non ti funziona più l’anestesia.
I personaggi dei brevi racconti di Trainspotting guardano un mondo bugiardo e si affidano all’eroina ritenendola l’unica sincera amica nella quale rifugiarsi dalla paura di assaporare pienamente le loro vite. Non resta quindi, ai giovani e disperati protagonisti, che osservare i treni che passano ed aspettare di prenderne finalmente uno pronto a percorrere una nuova strada.
Scegliete la vita; scegliete un lavoro; scegliete una carriera; scegliete la famiglia; scegliete un maxitelevisore del cazzo; scegliete lavatrici, macchine, lettori CD e apriscatole elettrici. Scegliete la buona salute, il colesterolo basso e la polizza vita; scegliete un mutuo a interessi fissi; scegliete una prima casa; scegliete gli amici; scegliete una moda casual e le valigie in tinta; scegliete un salotto di tre pezzi a rate e ricopritelo con una stoffa del cazzo; scegliete il fai da te e chiedetevi chi cacchio siete la domenica mattina; scegliete di sedervi sul divano a spappolarvi il cervello e lo spirito con i quiz mentre vi ingozzate di schifezze da mangiare. Alla fine scegliete di marcire, di tirare le cuoia in uno squallido ospizio ridotti a motivo di imbarazzo per gli stronzetti viziati ed egoisti che avete figliato per rimpiazzarvi; scegliete un futuro; scegliete la vita. Ma perché dovrei fare una cosa così? Io ho scelto di non scegliere la vita: ho scelto qualcos’altro. Le ragioni? Non ci sono ragioni. Chi ha bisogno di ragioni quando ha l’eroina?
Questo soliloquio di Trainspotting (Danny Boyle, 1996), narrato dalla voce fuori campo di Mark Renton (Ewan McGregor) e la canzone di sottofondo Lust for life di Iggy Pop, sono diventati una sorta di rappresentazione iconica del film stesso. Se nel romanzo è inserito a metà dell’opera, il regista invece decide di inserirlo come un manifesto che anticipa il pensiero e il modo di vivere dei protagonisti. La trama frammentaria del film è la stessa del libro: un gruppo di giovani amici che possiedono caratteri completamente differenti hanno in comune un’unica cosa, la dipendenza da eroina. Un flusso di negatività e di “tutti contro tutti”, contro il proprio paese, contro la società e anche contro sé stessi, che accompagna i protagonisti nella loro vita quotidiana costituita da azioni spinte sempre, ed esclusivamente, a ottenere “uno schizzo”, la dose di eroina.
La narrazione non sembra seguire una vera e propria linea temporale, salta da racconti del presente a ricordi e vicende casuali, in modo segmentato e discontinuo attraverso un ritmo che incarna perfettamente la frenesia, o pacatezza, dei protagonisti. Un film anche ricco di omaggi artistici, come Arancia Meccanica (Stanley Kubrick, 1971), Taxi Driver (Martin Scorsese, 1976) oppure ai Beatles, che riempiono scenograficamente, e visivamente, le inquadrature con rimandi.
Ma pensando a Trainspotting, paradossalmente, come un film di formazione, una sorta di trasposizione di immagini in movimento che potrebbe ricordare un romanzo come Il giovane Holden, una delle domande interessanti da porsi può essere: nello spettatore di oggi, Trainspotting alimenta ancora quel senso di provocazione e irriverenza come per uno del 1996? Oppure, lo spettatore che ha visto il film nel 1996, da adolescente, vedendolo oggi, proverebbe le stesse emozioni? Sono domande “provocatorie” a cui non si può rispondere in maniera così immediata – e in parte sono domande che possono essere poste per qualsiasi film del passato –, ma possono essere utili per cercare di riflettere sulle tematiche che vengono toccate – droga, consumismo e situazioni economiche problematiche – attualizzando il discorso generale verso uno spettatore contemporaneo ormai assuefatto, cinematograficamente, da queste. Le differenze tra il romanzo e la pellicola sono molteplici, ma alcune possono essere sottolineate più di altre proprio perché influiscono sullo stile rappresentativo e narrativo di quest’ultimo.
Se nel libro i genitori di Mark possono essere immaginati come dozzinali e decadenti, nella pellicola sono protettivi e amorevoli nei suoi confronti; se nel romanzo il narratore cambia in riferimento alle vicende, e sembra non esserci un vero protagonista, nel film invece è sicuramente Mark Renton a vestire questi panni, inoltre il suo rapporto con Diane, tra le pagine, è qualcosa di più che una semplice attrazione fisica.
E se il film riesce a smorzare in modo grottesco e spesso ironico le vicende drammatiche, il libro sembra seguire sempre una linea cruda, reale e granitica che insinua nel lettore un senso di persistente inquietudine.
di Maria Cagnazzo e Alessandro Foggetti
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