Un giorno di ordinaria disparità
Sono le sette e cinque e, naturalmente, corro.
Non avrei dovuto andare a piedi, non avrei dovuto sognare. È tardi, scendo giù per la scala mobile, la sporta ricolma s’impiglia negli abiti dei vicini, ma non posso fermarmi.
Ed ecco che anche questo mese il secondo appuntamento della nostra rubrica di letteratura russa è pronto per allietare le vostre letture. Quest’oggi vi propongo il racconto di Natalija Baranskaja, Una settimana come un’altra (Nedelja kak nedelja, Editori Riuniti, 1990), pubblicato per la prima volta sulla rivista «Novyj Mir» nel 1969. Quando smetterò di parlarvi di opere tristi e angoscianti? Non lo so. Vi anticipo anche che uno dei prossimi articoli parlerà di Grigio è il colore della speranza di I. Ratušinskaja quindi, fate un po’ voi.
Baranskaja scrive questo racconto all’età di sessant’anni. La sua vicenda personale è certamente ben presente all’interno dell’opera: si laurea presso la facoltà di filologia di Mosca, nel 1943 va a riempire la fila delle vedove di guerra, ritrovandosi perciò a dover prendersi cura dei suoi due figli da sola e lo fa lavorando sia come ricercatrice che al museo Puškin. Inaugura la sua carriera letteraria solo nel 1966, dopo essere andata in pensione. Sebbene i punti di contatto tra lei e la protagonista – e le sue colleghe – del racconto siano presenti, la scrittrice afferma che il dato autobiografico non sia poi così fondamentale poiché il suo intento era quello di dipingere una parte della realtà sovietica, quella delle donne lavoratrici e madri di famiglia:
Mi sento chiedere spesso se il mio racconto Una settimana come un’altra è autobiografico. No, almeno non nel senso letterale del termine. Il lettore potrà accorgersene leggendolo. Ma i problemi essenziali della mia eroina, che si divide tra lavoro e famiglia, sono assai simili a quelli che sono stati i miei. Vorrei dedicare molto più tempo al mio lavoro, per portare avanti quello che ho cominciato, per scrivere quello che ho in animo. Ma, nonostante tutte le difficoltà che incontro, mi sento felice.
Ol’ga Nikolaevna Voronkova è una ricercatrice di ventisei anni, ha un marito, Dima, e due figli, Kotja e Gulja. Si divide tra il lavoro in laboratorio sulla termostabilità di un determinato tipo di resina e il prendersi cura della famiglia. La sua vita dipende da un oggetto che si fa incarnazione di tutte le sue frustrazioni, paure e urgenze: la sveglia, che con il suo ticchettio scandisce le poche ore che le rimangono per dormire, che la cullano in una martellante ninna nanna di rintocchi infernali che sono lì a ricordarle che il tempo scorre e lei non è riuscita a portare a termine tutto il lavoro che doveva fare durante quella giornata. Seguiamo Ol’ga nel corso di una intera settimana. La narrazione in prima persona e la scansione dei capitoli giorno per giorno ci danno l’illusione di leggere il suo diario ma sappiamo bene che non è così, non avrebbe il tempo materiale non tanto per scriverlo ma neanche per pensare a cosa appuntare. Ol’ga vive in un continuo stato di ansia, nella sua eterna fretta, nel suo perenne ritardo, nella sua strenua e infinita lotta contro il tempo. Il lunedì mattina fa sempre tardi al lavoro e questo le causa non pochi problemi e richiami. Ogni mattina la stessa corsa: alle sei meno un quarto suona la sveglia. Si alza d’un botto. Si veste rapidamente. Prepara la colazione per Dima e i figli (colazione che lei, puntualmente, non mangerà). Sistema. Pulisce. Prepara Kotja e Gulja per la scuola. Si fa largo tra le loro urla. Si difende dai loro capricci. Se le rimane del tempo si porta avanti con la preparazione della cena. Dimentica di ricucire il gancio della sua cintura. Vede l’autobus passare da lontano. Se non si affretta lo perderà. La massa di persone che lo affolla la schiaccia. La fagocita. La consuma. Cerca di ottimizzare tutto il tempo che ha a disposizione. Sull’autobus tenta di leggere gli ultimi racconti sulla rivista Junost’ di cui tutti parlano ma che lei non ha il tempo di sfogliare. Persino la spesa è strategicamente incastrata nella pausa pranzo e in un orario in cui si è sicuri di non trovare troppa fila nei negozi. Le «mammine», come si chiamano fra di loro Ol’ga e le sue colleghe, si organizzano in turni giornalieri in modo da poter assicurare a tutte e quattro un aiuto tangibile e un risparmio di tempo considerevole, tempo che viene impiegato, naturalmente, per il lavoro (per ricucire il gancio della cintura, non serve dirlo, non ha il tempo).
Il lunedì si ritrova sul tavolo un formulario: «Inchiesta sulle donne». Un’inchiesta dedicata al problema della bassa natalità, in cui le domandano la composizione della sua famiglia, il grado di istruzione dei vari componenti, le condizioni di vita e anche quali svaghi si concede nel tempo libero:
Personalmente, sono una fanatica dello sport: faccio podismo. Esco di corsa, torno di corsa. Una sporta ad ogni braccio, salgo di qua, scendo di là: dal filobus all’autobus, da una metropolitana ad un’altra. Non ci sono negozi nel nostro quartiere, è più di un anno che ci abitiamo e continuano a non esserci.
Baranskaja, con poche ed efficaci parole, ci restituisce il ritratto delle colleghe di Ol’ga che si ritrovano, come lei, a dover barcamenarsi tra obblighi sociali e personali. Ljsja la bruna è sposata con un dottore in scienze, i soldi non mancano, il figlio Marc ha una bambinaia, eppure il marito non fa che rimproverare la donna accusandola di essere un’egoista, di trascurare il bambino e affidare la sua educazione a degli estranei. Vuole che Ljusja abbandoni il lavoro, vuole che gli dia un altro figlio per avere così una “famiglia normale”. Ljusja la bionda, invece, non è sposata. Il padre di suo figlio Vovka, dopo aver intrapreso una relazione con lei si è dimenticato di menzionare un piccolo dettaglio: aveva già moglie e figli. Quando, ormai al quarto mese, gli ha detto di essere incinta, il capitano coraggioso si è volatilizzato (noi giovani diremmo che si è comprato un biglietto per il Messico). Ora vive con la madre che è arrivata in città dalla campagna per badare al nipote e occuparsi della casa. Čura poi, è la più riservata. Ha un figlio che dopo la scuola rimane da solo in casa e aspetta il ritorno della madre che gli telefona più volte al giorno per sentire come sta. Nonostante abbia cercato di nasconderlo, tutte sanno che suo marito è un alcolizzato e per questo non le fanno mai domande su di lui. Infine, il capo, Marija Matveevna. Ha settant’anni, vive sola. Ha due figlie ormai grandi che sono cresciute in una casa per l’infanzia. Non ha altri interessi oltre al suo lavoro e al partito. Tutte queste donne, perciò, subiscono un qualche tipo di pressione: lavorativa, perché devono rispettare le norme di produzione, o sociale da parte dei familiari che vorrebbero relegarle a un ruolo del tutto gregario, del tutto assoggettato al potere patriarcale. Giostrarsi tra lavoro e famiglia diventa quindi un terzo lavoro e Ol’ga è convinta di fallire in ciascuno di questi. Il suo impegno nel campo della ricerca è purtroppo inficiato dalle responsabilità familiari che vedono lei protagonista in massima parte.
Non dica sciocchezze, Olga. Deve essere fiera di essere una buona madre. E una buona lavoratrice, per di più. Lei è una vera donna sovietica! M. M. parla, ed io mi chiedo (dentro di me, naturalmente) di che cosa dovrei andar tanto fiera: sono davvero una buona madre, come dice lei? Ed ho davvero diritto a essere apprezzata come lavoratrice? E poi, cosa significa essere «una vera donna sovietica»? È inutile chiederlo a Marija Matveevna, non mi risponderebbe nemmeno.
Ol’ga è entusiasta del suo lavoro che svolge con appassionata solerzia. Nonostante le difficoltà, le attrezzature per gli esperimenti sempre occupate, il poco tempo da dedicare alla lettura delle riviste scientifiche, i rimproveri dei superiori, continua la sua ricerca con entusiasmo e dedizione:
Più lavoro su questa resina, più il lavoro mi appassiona. Adesso ho fretta di finire le prove su questa serie migliorata.
La vita fugge, et non s’arresta una hora diceva il poeta e lo sa bene anche la nostra Ol’ga che, nella sua incessante corsa contro il tempo, non può permettersi nemmeno di fantasticare un attimo e godersi una passeggiata fra i viali moscoviti senza pesi sulle braccia e, soprattutto, sul cuore:
Improvvisamente mi sento assalire dal desiderio nostalgico di camminare a mani vuote, senza pesi, senza meta. Di camminare così, semplicemente, senza fretta, con calma, lentamente. Una passeggiata d’inverno per i viali di Mosca, per le strade, fermandomi ogni tanto davanti alle vetrine a guardare fotografie, libri, scarpe, leggendo senza fretta i manifesti, pensando a dove mi piacerebbe andare, assaporando lentamente un gelato. E su una piazza, sotto l’orologio, scrutando la folla, attendere Dima. Tutto questo c’è stato, ma tanto, tanto tempo fa che mi sembra di non essere stata io, ma un’altra.
Il questionario prevede anche il conteggio delle ore di assenza. Ol’ga sa già bene che trascorre quasi la metà dell’anno a casa per via delle malattie dei bambini che, neanche a farlo apposta, si danno il turno per stare male: quando finisce uno inizia l’altro. E chi deve rimanere presso il focolare a curarli è naturalmente lei. Dima le chiede quindi di lasciare il lavoro per dedicarsi completamente alla famiglia. Una richiesta che, se fatta a parti invertite, non avrebbe avuto nemmeno una risposta. Il marito di Ol’ga non si rende conto quanto una simile domanda la ferisca. Abbandonare il lavoro non significherebbe soltanto dover interrompere le sue ricerche, ma anche, e soprattutto, cancellare il suo passato, i suoi anni dedicati allo studio, il suo diploma, la sua professione, in poche parole, annullare sé stessa. E se questa non fosse una giustificazione abbastanza valida, c’è anche la questione dei soldi: i due riescono a mala pena a vivere con quello che hanno, entrambi i loro stipendi sono dunque necessari. In Unione Sovietica l’emancipazione delle donne è avvenuta ben prima che in Occidente poiché tutti i cittadini dovevano contribuire alla prosperità del paese. Ciononostante, la ripartizione dei ruoli all’interno della famiglia, come si può evincere dal racconto, era (e forse lo è ancora) lontana. Ma queste donne hanno davvero scelto di essere madri? Si è tratta di una scelta libera la loro? La protagonista di Baranskaja – ma anche Baranskaja stessa – nonostante ricopra una posizione lavorativa alta, si vede costretta a sacrificare parte della sua ricerca che consiste nello studiare e nel tenersi aggiornata, per badare alla cura della casa e dei figli. Dima raramente la aiuta e, quando lo fa, la rimprovera di non apprezzare il suo sforzo. Portare i bambini a fare una passeggiata mentre Ol’ga mette sottosopra l’appartamento per pulirlo da cima a fondo è di certo un’attività logorante e degna d’un riconoscimento adeguato!
Si è spesso parlato di femminismo in riferimento a questo racconto ma credo che non sia del tutto corretto. Ol’ga Nikolaevna non denuncia la condizione di disparità nella quale vivono le figure che popolano le pagine di Una settimana come un’altra, la sua è più una constatazione. È la stessa Baranskaja, difatti, a dichiararlo. La protagonista, al contrario, tende sempre a giustificare la mancanza di rispetto nei suoi confronti da parte del marito anche quando lei gli chiede una mano con le faccende domestiche:
Povero Dima, anche lui ha il suo da fare, e per giunta mi faccio venire una crisi di pianto, come un’idiota… Che pena, vederti così… Ti amo…
I giorni di Ol’ga si susseguono così in un trambusto che prosciuga, che svuota. La pressione è talmente alta e schiacciante che una mattina scoppia in un riso isterico per la troppa tensione accumulata e si dimentica persino di dover partecipare a un convegno in qualità di relatrice dopo che aveva insistito per poter prendere la parola. Il sabato e la domenica non sono da meno. Gli unici due momenti che potrebbero essere dedicati se non interamente, almeno in parte, al riposo, sono tali solo per Dima e i due figli. Lei deve lavare, stirare, sistemare, preparare. Il fine settimana viene risucchiato in un vortice che sa di bucato e briciole spazzate.
Sono già a letto. Dima carica la sveglia e spegne la luce. Solo allora mi torna in mente il gancio. Vada al diavolo, non mi alzerei per nulla al mondo. Invece, non so perché, mi sveglio che è notte fonda. Sento come un’angoscia. Tutto è calmo, sereno. Perché allora quest’angoscia? Non so. Me ne sto coricata sul dorso, ad occhi aperti. Ascolto il silenzio. I tubi del termosifone sospirano. Sento il tic-tac della pendola dei vicini del piano di sopra. Il bilanciere ritma tranquillamente il tempo, lassù, quello stesso tempo che corre via in un lampo, inghiottendo ogni cosa. È il risveglio.
Ed ecco che anche questa settimana, la penultima di quell’anno ma che potrebbe essere una qualsiasi altra settimana di qualsiasi altro anno, volge al termine. La domenica finisce, l’indomani Ol’ga dovrà ricominciare tutto da capo, nel suo incessante, inarrestabile tourbillon de vie.
E la cintura da rammendare è ancora lì in un angolo.
Ad aspettare.
Fra la seconda e la terza pagina del “Venerdì” una certa Beatrix S. di Bergamo ha lasciato un foglietto con i suoi dati. È sempre bello trovare questi inaspettati regali dal passato. Chissà se anche a Beatrix è piaciuto questo libro.