“Un mondo orfano” di Giuseppe Caputo
Quando gli chiedevo, anni fa, della mia nascita, mio padre mi metteva a sedere accanto a lui, o sulle sue gambe, per parlarmi del cielo e delle stelle, e di un pianeta, in particolare, che si trovava, diceva lui, alla periferia dell’universo. Non aveva nome quel pianeta – non per noi, sulla Terra, perché era molto lontano e nessuno gliene aveva mai dato uno. Da qui la sua importanza, diceva lui: nonostante esistesse e sapessimo che esisteva, non aveva nome.
Era un mondo orfano, senza sole, e la notte, perciò, era perpetua. «Ci sono molti mondi così» aggiungeva Papi guardando il cielo e invitandomi a fare lo stesso «orfani della stella-madre, dopo la nascita dei sistemi solari».
Là dove i lampioni si spengono, o semplicemente restano indietro, come per evitare di spingersi fino in fondo alla strada, o come se questa, che si chiama poi via delle Luci, si intristisse sempre più avvicinandosi, c’è una casa che sembra spettinata, tanto le tegole sono smosse. E in questa casa, dove le mattonelle staccate del pavimento lasciano scoperti fili e tubi, ci sono un padre e un figlio, entrambi senza nome. Un padre e un figlio che affrontano ciascuno a modo proprio la profonda solitudine che li circonda. Il padre disegna sulle pareti con i pastelli la figura del figlio e tanti edifici, uno sopra all’altro: grappoli di palazzi che nascono tutti da altri palazzi. E siccome lui e il figlio vivono in ristrettezze economiche, «quando le banconote diventano monete e le monete meno monete» smette di dormire per notti intere, finché non inventa un piano per riempire la dispensa: la casa parlante come attrazione, vendere consigli ai clienti del bar, fare il sarto, mettere su uno spaccio di merci. Il figlio invece si veste da farfalla e frequenta locali gay e cerca nel sesso e nell’erotismo con sconosciuti una maniera per stordirsi, e percorre le strade buie dove sono state conficcate teste mozzate di uomini, braccia, gambe penzolanti e testicoli appesi come macabro monito contro l’omosessualità.
Un mondo orfano di Giuseppe Caputo, pubblicato a inizio 2023 da Alessandro Polidoro Editore nella traduzione di Francesca Lazzarato, è una sorta di romanzo elettrico, un circuito di frasi come cavi attraverso i quali corrono simultaneamente tenerezza e atrocità. E non tragga in inganno il nome dell’autore: Giuseppe Caputo è uno scrittore colombiano, con all’attivo diverse raccolte di poesia e due romanzi: Un mondo huérfano (2016), che gli ha permesso di entrare nella lista Bogotà 39 dei migliori scrittori latinoamericani under 40, ed Estrella madre (2021).
Su tutto c’è il rapporto dolcissimo tra il padre e il figlio, con il figlio che comprende pian piano di essere padre del padre. L’immensità del loro amore si staglia, si amplifica e si compatta nell’immensità della città, anch’essa senza nome, e del mare che si estende oltre via delle Luci e che ogni tanto elargisce dei doni: orologi, lampade, un divano rosso abitato dalle alghe, mentre il cielo, di notte, è sempre pronto a manifestarsi e a esplodere, a farsi pioggia, tuono, stelle, a farsi costellazioni, luna.
C’è come un’aspirazione a tornare da dove si è venuti, una nostalgia del passato che si fa crepa nei corpi, frantumandoli, mentre essi, in fondo, vorrebbero soltanto unirsi, sovrapporsi, penetrarsi, per dimenticarsi, prima, e infine riconoscersi. Quelli del padre e del figlio quando sulle pareti bianche della casa scorrono le scene di vecchie bobine, un proiettore magico che ruota e che li moltiplica nel corpo e nel tempo:
Mio padre e io che correvamo sulle pareti, ci mettevamo in posa sulle pareti, sorridevamo sulle pareti muovendoci in soggiorno a un’altra età, vedendoci noi stessi muoverci a un’altra età, con un altro corpo.
O sempre loro che dormono insieme, il corpo dell’uno sull’altro, il padre sul figlio, come lo avesse generato lui, per un momento poter credere che quell’istante possa durare un’eternità. E lo stesso accade quando il figlio esce di notte per andare in un locale d’incontri, per congiungersi ad altri corpi, e fare sesso in una sauna, in mezzo al sudore e allo sperma, nel labirinto di corridoi, essere lui la porta, la parete, lo specchio, con la disperazione di sentirsi però desiderato e usato. Pagine e pagine meccaniche, con il figlio desiderante e affamato che nonostante non possa abbandonare dalla mente l’immagine terrificante di omosessuali torturati e smembrati appesi ai pali della strada buia, esce con indosso un outfit da farfalla, simbolo della sua identità e disapprovazione sociale.
La violenza che crepita nella trama – bagliori, squarci, non si sa se di luce nel buio o di buio nella luce – non è però mai centrale. Nei momenti di violenza, infatti, a esplodere in maniera abbacinante è sempre la tenerezza. L’unica protezione, sembra volerci suggerire Giuseppe Caputo, è circondarsi d’amore: «Abbracciami ogni tanto;» dice il padre, «a volte possiamo diventare uno solo».
Attraverso una scrittura ora lirica, ora spietata, l’autore colombiano indaga ciò che è insieme assente e concreto, e ci parla di personaggi senza mondo e di mondi che finiscono, di oggetti sfasciati che non finiscono e ritornano e di corpi come oggetti smembrati. Una ricognizione di ciò che è frammentato, nel tentativo, poi, di operare esteticamente una possibile ricostruzione di quel corpo – orfano della società, della solvibilità economica, della propria identità – che è poi, in tutta la sua oscurità rotta da fasci poetici di luce, il romanzo stesso.
Questo congegno elettrico, magico, dolorosissimo, che è Un mondo orfano.