Culturificio
pubblicato 6 anni fa in Cinema e serie tv

Woody Allen

La ruota delle meraviglie

Woody Allen

Anni Cinquanta, Coney Island. All’ombra di una gigantesca e vivace ruota panoramica, tra lo schiamazzo degli avventori del parco divertimenti, si consuma la vicenda di Ginny Rannell (Kate Winslet) nell’ultimo film scritto e diretto da Woody Allen. La vacillante esistenza di Ginny riceve una breve e intensa impennata per poi sprofondare ancora nella monotonia iniziale. Attenzione: lo spettatore, avvezzo alla tragicomicità e al peculiare humour “alleniano“, dovrà prepararsi, come già avvenuto con Blue Jasmine (2013), ad un dramma amaro, dall’esito drammatico, irrisolvibile se non nell’inazione e nell’arrendevolezza.

Ginny è un’ex attrice con un figlio a carico, affetto da piromania, e un marito, Humpty (un insolito Jim Belushi, consolidato volto comico della fortunata sitcom americana “La vita secondo Jim”), sposato in seconde nozze, alcolizzato e violento. Ginny è frustrata per il fallimento professionale e sentimentale, soffre di perenni emicranie, il suo volto è grigio, spento. Non è completamente presente a se stessa, ma vive in una bolla di apatia. Assiste, passiva, allo spettacolo della sua vita, sente di recitare ogni giorno la parte della cameriera di un modesto ristorante di pesce, si sente bloccata nel peggior ruolo che abbia mai interpretato. Quando incontra il giovane bagnino e aspirante scrittore Mickey (Justin Timberlake, nato come cantante e da anni dedito a progetti cinematografici di discreto successo), passeggiando solinga e frastornata sulla spiaggia, non sa che la sua vita sta per prendere una piega finalmente diversa (anche se per la sola durata di un’estate). Ha inizio così un amore clandestino: un’incontrollabile passione li investe come un fiume in piena, entrambi ricevono qualcosa di nuovo, entrambi si danno l’uno all’altro. La luce della macchina da presa rischiara l’intera figura di Ginny, la dipinge di un rosso caldo, scarlatto, vivificante. Ma lo scambio diventa presto impari quando la pressione e le aspettative di Ginny preoccupano i sentimenti più leggeri e disinteressati di Mickey. Ma, soprattutto, è l’entrata in scena di Carolina (Juno Temple, figlia d’arte, con alle spalle numerosi piccoli ruoli) prima figlia di Humpty, in fuga da una relazione pericolosa con un gangster, a incrinare la già precaria situazione. La bellezza, la freschezza, l’innocenza ancora miracolosamente intatta della ragazza, nonostante il vissuto burrascoso, fanno impazzire di gelosia Ginny. Il triangolo amoroso (Ginny-Mickey-Carolina) occupa tutta la seconda metà del lungometraggio e richiama la rivalità di “Eva contro Eva” di Joseph L. Mankiewicz, con le superbe Bette Davis ed Anne Baxter. Il silenzio di Ginny, a conoscenza di una terribile minaccia di morte che incombe sulla giovane Carolina, sarà il colpo di scena finale.

Tutti i personaggi, fuorché Ginny, sono apparentemente statici: mantengono più o meno una linea coerente dall’inizio alla fine. Infatti, dopo il nome del regista, garanzia di autorialità (a dispetto di ogni soggettività), è del tutto merito dell’interpretazione della Winslet, impeccabile, onesta, né troppo languida né troppo nevrotica, se questa Ruota delle Meraviglie, dopo tutti i “giri“, talvolta superflui, talvolta sconnessi, riesce ad esplorare a fondo il panorama interiore della sua protagonista. Per di più, i toni melodrammatici e sofisticati ricordano, più che vagamente, l’opera drammatica di Tennessee Williams “Un tram che si chiama Desiderio“. Tuttavia, la vera analogia, voluta dal cineasta e suggerita dal personaggio di Mickey, è quella dell’Amleto, l’emblema della cruciale lotta che vive ogni individuo dentro di sé. L’ostacolo al desiderio di riscatto di Ginny non è fisico (la rivale Carolina), ma metafisico: volendo citare proprio il celebre “essere o non essere“, il dilemma sta proprio nell’essere a metà di Ginny, tra realtà e finzione. Come non menzionare le parole di Allen, a ribadire il suo pensiero, benché sfumato di ironia, dichiaratamente pessimista:

Non ho mai creduto che la bellezza fosse anche la verità, mai. Ho sempre creduto che la gente non possa sopportare troppo la realtà

Nella scena conclusiva, il primo piano di Ginny è illuminato da tonalità fredde, blu, il viso ritorna opaco, torvo. Cala definitivamente il sipario. I dialoghi, le ambientazioni spesso al chiuso, la modulazioni delle luci , sono tutti aspetti di matrice chiaramente teatrale. Il tutto non esaudisce pienamente, a mio parere, il potenziale dell’eclettico regista newyorkese; ciononostante, si conferma un prodotto di qualità, colto, sofisticato senza eccedere, intriso di riferimenti metateatrali e suggestioni letterarie.

 

 


 

Articolo a cura di Alessandra Savino