Alessandro Foggetti
pubblicato 9 mesi fa in Cinema e serie tv

“Asteroid City” di Wes Anderson

“Asteroid City” di Wes Anderson

Il racconto nel racconto: le scene in bianco e nero e quelle a colori, gli attori e i personaggi, la vita reale e quella interpretata sul palcoscenico. Asteroid City (2023) è il metacinema secondo Wes Anderson.

È molto impegnativo lavorare con lui [Wes Anderson], perché è così specifico su ciò che vuole. E la frustrazione artistica è insita nell’opera stessa. Non credo di aver mai lavorato a nessun progetto in cui a un certo punto non mi sentissi insoddisfatto con me stesso per la mancanza di capacità di aggrapparmi a qualcosa o di comprendere completamente un momento che ti sfugge. […] Finché intorno a te hai un gruppo che ti supporta, composto da altri attori che hanno provato la tua stessa sensazione, a un certo punto del processo può aiutarti. Abbiamo imparato a fidarci l’uno dell’altro, confidando che Wes, in modo sereno, ci guidasse attraverso gli ostacoli che avremmo potuto incontrare (Bryan Cranston).

I fautori di Wes Anderson – compreso ovviamente me – erano in trepidante attesa per l’uscita nelle sale del suo nuovo film. Il cast stellare, le accurate scenografie, gli immancabili colori pastello e le inquadrature geometriche, tutto ciò che ha reso iconico il regista texano. Ma Asteroid City ha davvero accontentato le aspettative?

È tutto chiaro fin dall’inizio, nero su bianco. O meglio, in bianco e nero. Asteroid City è il nome di una fantomatica opera teatrale, come spiega il narratore/annunciatore – interpretato da Bryan Cranston – che sembra venire direttamente da un vecchio televisore a tubo catodico degli anni Cinquanta. Quest’opera è stata scritta da Conrad Earp (Edward Norton) e con lui, prima di immergere lo spettatore nei colori e soprattutto nella storia, vengono presentati gli attori e i personaggi che interpretano, in una sorta di dietro le quinte con tanto di sigarette, copioni e tazze di caffè.

Asteroid City (87 abitanti), Stati Uniti d’America, 1955. Il fotografo di guerra Augie Steenbeck (Jason Schwartzman) e la sua famiglia composta dal figlio Woodrow (Jake Ryan) e le tre figlie; la diva del cinema Midge Campbell (Scarlett Johansson) e sua figlia (Grace Edwards); il cowboy Montana (Rupert Friend) e la sua banda, una maestra (Maya Hawke) con i suoi alunni, la dottoressa Hickenlooper (Tilda Swinton) e tanti altri personaggi/attori celebri si trovano in questo luogo desolato per un concorso di scienze e, per puro caso, a condividere un avvenimento stupefacente: l’atterraggio sulla Terra di un alieno.

La finzione e la realtà, l’interpretazione e la professione attoriale, i colori pastello, accesi e vivi, della storia di fantascienza che si fondono con il bianco e nero della vita reale/attoriale – anch’essa, naturalmente, alla Wes Anderson.

È un continuo gioco delle parti, una partita a tennis tra il regista e gli spettatori, dove il narratore invade anche il coloratissimo palcoscenico, rompendo le pareti (letterali e metaforiche) che dividono l’opera teatrale, il dietro le quinte e la percezione dello spettatore.

Il set compare e scompare, si muove e scorre da una parte all’altra dello schermo. La macchina da presa corre veloce su un carrello orizzontalmente, come un videogioco in 2D, stanza per stanza e set per set. Ma anche con tutti questi movimenti di macchina – da alcuni definito «narcisismo autoriale», autocelebrativo – lo spettatore è incollato alla storia. Come se il regista volesse dire: ciò che conta davvero è la narrazione.

A differenza del precedente lungometraggio The French Dispatch (2021) lo stile del film non è frenetico, anzi, il regista cerca gli spazi vuoti e la desolazione, quasi ad amplificare i momenti introspettivi e di meditazione.

I corpi e i dialoghi dei diversi personaggi si intersecano fugacemente, da una tematica all’altra, dalla perdita di una persona cara ai nuovi amori, dalla felicità adolescenziale delle nuove conoscenze all’infelicità dell’età adulta, carica di responsabilità e di smarrimento. I personaggi, che si trovano in una cittadina in mezzo al deserto, e sul palcoscenico, sembrano incarnare figure che hanno creato l’immaginario iconico, hollywoodiano, del cinema degli anni Cinquanta – e non solo – come Marilyn Monroe, Billy Wilder e John Wayne.

La celebre simmetria delle inquadrature di questo regista, infatti, è rafforzata dalla solita e minuziosa scenografia: edifici (come la tavola calda, in perfetto stile a stelle e strisce), stanze e panorami che sembrano ricordare pellicole come Giorno maledetto (Bad Day at Black Rock, 1955) di John Sturges e L’asso nella manica (Ace in the Hole, 1951) di Billy Wilder. Ma anche dagli eloquenti costumi di scena – che alcuni critici non vedono di buon occhio considerandoli autoreferenziali e fini a sé stessi –, che completano un microcosmo stilistico evidenziato anche dagli accessori e dagli oggetti che utilizzano e indossano i personaggi: una macchina fotografica analogica, una pipa, un paio di occhiali da sole o una visiera verde plastificata diventano, come nelle pellicole precedenti, feticci del cinema andersoniano. Arte contemporanea, moda e design sembrano essere racchiusi nella stessa e magnifica scatola cinematografica – personalmente, per dargli una forma concreta, è molto simile a quella della pasticceria Mendl’s.

Ma le riflessioni e i pareri su Asteroid City non dovrebbero riguardare esclusivamente lo stile e l’estetica, perché in questo modo si rischierebbe di sottovalutare brutalmente quello che Wes Anderson restituisce attraverso i fitti dialoghi, la caratterizzazione dei personaggi e, soprattutto, l’intensa analisi sul Cinema come arte e vettore comunicativo.

I colori accesi e le battute ironiche celano una sottotraccia profondamente malinconica. Nell’opera teatrale vengono messe in luce tematiche come la perdita di una persona cara, l’amore diviso da uno muro invisibile e connesso a parole da una finestra all’altra, la privazione della libertà durante la quarantena (dopo l’arrivo dell’alieno) e la paura distruttiva della bomba atomica. E anche “nel dietro le quinte” (in bianco e nero) l’inquietudine è un’ombra costante: la solitudine del regista Schubert Green (Adrien Brody) che non ha una fissa dimora e vive nel teatro di posa, l’incidente mortale di Conrad Earp – un’allusione a James Dean? – e gli abissali dubbi sull’esistenza nel dialogo finale tra Jason Schwartzman e Margot Robbie.

Asteroid City è la rappresentazione cinematografica, nuda e lucida, che discute sul Cinema stesso. È la continua ricerca degli attori per scovare dei personaggi giusti per loro e per comprendere sé stessi. È una riflessione sulla vita e sulla morte, sull’inettitudine degli esseri umani e sull’esistenza nel mondo. Ed è soprattutto un’indagine critica sull’interpretazione/ricezione di una storia, di un racconto filmico, che pungola e confonde lo spettatore – tra diversi spazi narrativi, colori e protagonisti – per stimolare la sua percezione nei riguardi della settima arte e di cosa voglia davvero rappresentare.