Everything Everywhere All at Once
una storia di famiglia che si specchia nel multiverso
This is a life (Every possibility)
Free from destiny
(I choose you, and you choose me)This is a life
This is our life
Evelyn è una donna cinese di mezza età che vive in America, dove gestisce una lavanderia a gettoni con il marito. La vediamo immersa in una giornata particolarmente frenetica, durante la quale sta organizzando una festa per Capodanno. L’inizio, si spera sempre, di qualcosa di nuovo che interrompa quel ciclo costante di ripetizioni, rappresentato dal monotono girare dei cestelli delle lavatrici.
Nel frattempo, deve anche fare i conti con problemi burocratici e un’intransigente funzionaria dell’agenzia delle entrate, e assicurarsi che in casa e nel negozio sia tutto perfettamente in ordine per dimostrare al padre che è riuscita a fare qualcosa di buono.
Presa da mille pensieri, che rivendicano la priorità gli uni sugli altri, la donna sembra non riuscire a focalizzarsi su nessuno. Né ascoltare le richieste del marito, che al contrario è un uomo calmo, incapace di prendere le cose troppo sul serio, e quelle della figlia che insiste perché possa presentare la fidanzata al nonno, rivelandogli dunque la sua omosessualità.
Ma all’improvviso qualcosa sconvolge la vita ordinaria di Evelyn, dimostrandole come proprio la mediocrità che caratterizza la sua esistenza possa renderla la persona giusta per intraprendere una missione nel multiverso e salvare ogni cosa dal caos. Il suo non essere riuscita a eccellere in nulla la rende infatti la persona perfetta per attingere a tutte quelle possibilità e capacità che in lei non si sono mai realizzate, facendola diventare un insieme incredibile di Evelyn diverse.
Everything Everywhere All At Once ci mostra con uno stile cartoonesco un caleidoscopio di versioni, un continuo “cosa sarebbe successo se”.
Il mondo sembra girare all’infinito, in un susseguirsi di eventi casuali dove tutto viene risucchiato, come accade alla protagonista ogni volta che passa da un universo all’altro, con il rischio però che possa trasformarsi in un buco nero privo di qualsiasi morale.
Sapere che quello che siamo non è dato una volta per tutte, ma dipende da circostanze di cui spesso non abbiamo il controllo, apre un universo di ipotesi.
Vale allora la pena di chiedersi se ha ancora senso quell’ossessione per la versione migliore di noi stessi, e se esistono davvero versioni migliori o scelte giuste in assoluto.
Talvolta da buone intenzioni possono nascere tragedie, e da errori invece scoperte inimmaginabili.
Un dettaglio o decisioni che sembrano insignificanti potrebbero cambiare il corso della propria storia, e in alcuni casi della Storia. Il dominio di un genere sull’altro, di un’etnia sull’altra, di una cultura sull’altra, per secoli considerato inevitabile in quanto espressione di un’evidente volontà superiore, in realtà è frutto di circostanze fortuite. Nulla è scontato, o determinato a priori.
Everything Everywhere All at Once gioca molto su questa casualità; i due giovani registi, Daniel Kwan e Daniel Scheinert, si divertono a sondare le possibilità più assurde, così che un nulla diventi il tutto, cambiando un destino e a volte creando catene di rimpianti.
Ma questa fatalità, che si prende pure gioco della limitatezza dell’essere umano, invece che spingere verso il nichilismo nasconde un abbraccio, un senso di accettazione dei nostri limiti, e in parte delle scelte fatte e della vita così com’è.
L’azione ha uno spazio centrale all’interno del film, che mescola generi e tradizioni diverse, con tanto di improbabili combattimenti (forse troppi, soprattutto nel dilungarsi del finale). Ma alla fine il multiverso si rivela un modo, attraverso le tante realtà mostrate, per raccontare e indagare il rapporto tra la protagonista e le persone che la circondano, il marito, il padre e soprattutto la figlia, punti cardine della sua vita.
Il confronto generazionale è l’elemento fondamentale della narrazione. D’altra parte, le relazioni familiari potrebbero essere interpretate come un esempio di multiverso. È come se i figli fossero una versione alternativa dei propri genitori, legati a loro da corde invisibili che li rendono parte di determinati modi di pensare, culture, abitudini, luoghi, e di conseguenza possibilità. Dai genitori si impara a stare al mondo, imitandoli e prendendoli come modelli. Finché con l’arrivo dell’adolescenza si comincia a cercare la propria strada, rifiutando di ripetere gli stessi gesti.
Una decisione o una casualità possono far prendere pieghe completamente diverse alla vita, mettendo fine a quel ciclo infinito, rendendoci persone nuove, e creando altri multiversi.
Lo sanno bene le due protagoniste femminili di Everything Everywhere All at Once.
Evelyn ha lasciato la Cina per seguire il sogno del marito oltreoceano, nonostante il padre fosse contrario. Si è mescolata a una realtà a lei estranea, ha deciso di vivere modificando un futuro in parte già programmato e le aspettative del genitore.
La figlia Joy invece è nata e cresciuta in America, non parla più bene il cinese, e così quegli scontri che inevitabilmente fanno parte della relazione madre-figlia sembrano diventare ancora più insanabili nel tentativo di conciliare mondi differenti.
Entrambe sonno donne a cavallo tra culture, lingue, mentalità, continuamente risucchiate da “multiversi” distanti tra loro.
Everything Everywhere All at Once celebra il trionfo della mediocrità e del fallimento, ma anche del potenziale nascosto che, se necessario, riesce a venir fuori. Fare i conti con il fatto che esistono infiniti noi significa ammettere che nella maggior parte dei casi una versione non è necessariamente migliore dell’altra, opporsi a una mentalità basata solo sul successo e su classifiche che esaltano storie di persone straordinarie, fuori dalla media, come modelli a cui ispirarsi.
Interessante a questo proposito anche il dualismo tra Evelyn e il marito, che hanno modi diversi di affrontare la vita e le sue difficoltà, entrambi legittimi e utili a seconda delle circostanze più sorprendenti.
Fino a qualche anno fa molti ritenevano improbabile che una donna straniera e di mezza età, con la testa piena di pensieri, potesse essere al centro di un film d’azione, catapultata in più multiversi, accedendo a capacità che non credeva di possedere ma che fanno parte delle sue potenzialità.
Lo dimostra il fatto che Michelle Yeoh è diventata non soltanto la prima attrice asiatica da quando esistono gli Academy Award a essere nominata come miglior protagonista, ma anche la prima a vincere un premio tanto ambito. Questo crea un precedente che potrebbe dar vita a un cambiamento, a quella deviazione in grado di aprire le porte a nuove realtà e “normalità”, in cui vittorie come questa non siano più un’eccezione.
Anche se, dopo tutte le riflessioni sull’ordinarietà fatte finora, risulta quasi ironico che un film come Everything Everywhere All at Once sia stato così osannato durante la notte che in campo cinematografico vorrebbe rappresentare proprio l’esaltazione dell’eccellenza a livello popolare. Una fiera della retorica dell’american dream e del farcela nonostante tutto, che sembra cozzare con una protagonista che per certi versi è più un’antieroina. A Evelyn in fin dei conti non interessa lottare e diventare la paladina del multiverso, anzi accetta questa missione mettendo tutto a rischio per una ragione personale: salvare sua figlia.
Skeeter